La maratona delle donne: quinta puntata

Aveva anche provato a iscriversi per vie “legali”, inutilmente. Nel rigettare la sua richiesta, gli organizzatori della maratona di Boston le avevano ricordato che la AAU (Amateur Athletic Union) non consentiva la disputa di gare femminili su distanze superiori alle 1.5 miglia e avevano aggiunto che le donne non erano fisiologicamente in grado di sostenere lo sforzo che avrebbe richiesto una gara di 40km e più! Il solito ritrito argomento medico che ignorava quanto erano riuscite a fare giusto in quegli anni alcune atlete, anche se in maratone di secondo piano.
Riuscire a correre ugualmente, in barba al rifiuto incassato, avrebbe pertanto avuto un significato simbolico che andava ben al di là del piacere di prender parte a una competizione che si disputava ininterrottamente dal 1897 e aveva grande rilevanza internazionale1.

Così, Gibb, Roberta-Louise, classe 1942, nella sua cerchia di conoscenti meglio nota come Bobbi, passò alle vie “illegali” e il 19 aprile 1966 si intrufolò, poco dopo il via, tra la massa di chi partecipava in modo non ufficiale e senza numero di gara alla 70° edizione della maratona di Boston. Lo stesso stratagemma che avevano usato Merry Lepper e Lyn Carman alla Culver City Marathon tre anni prima.
Gibb indossava la felpa e i bermuda del fratello, nel tentativo di camuffare la propria identità. Notata dagli altri concorrenti, fu da questi incoraggiata e non allontanata dal percorso in quanto donna; anzi, poté togliersi la felpa e affrontare la gara con un abbigliamento più adatto e raggiunse l’arrivo in tre ore e ventuno minuti, tempo sufficiente a far sì che la notizia della sua partecipazione arrivasse fino al Governatore del Massachusetts che al traguardo volle complimentarsi personalmente con lei.
Alcuni giorni dopo un articolo di Sports Illustrated, significativamente intitolato “A Game Girl In A Man’s Game“, parlò dell’impresa di questa «tidy-looking and pretty 23-year-old blonde named Roberta Gibb» che aveva realizzato un tempo inferiore a quello fatto segnare da 290 dei 415 partenti.

Tutto questo clamore non spinse, però, gli organizzatori della maratona di Boston a rivedere la propria posizione in merito alla partecipazione femminile: per la Boston Athletic Association solo gli uomini potevano competere, pur se tacitamente, visto che nel regolamento non comparivano accenni al genere dei concorrenti. 
Poco male. Invogliata da quanto accaduto l’anno prima, Kathrine Switzer, una ventenne del Winsconsin, decise di spostare l’asticella più in alto e sotto l’anonima dicitura “K.V. Switzer” si iscrisse alla gara vera e propria2. Il 19 aprile 1967 prese il via con il numero 261 applicato sulla sua abbondante felpa e spalleggiata da un po’ di gente che si allenava con lei. Tra cui il suo compagno, il robusto martellista Tom Miller.
Come già per Gibb nel 1966, anche per Switzer correre 42195 metri in mezzo a migliaia di persone senza che nessuno si accorgesse che era una donna si rivelò impossibile. La notarono ben presto anche i fotografi, che sopra il camioncino della stampa risalivano e scendevano il fiume dei concorrenti. In fondo, alla runner del Winsconsin tutto questo interesse non poteva che far piacere, chi la accompagnava avrebbe, invece, preferito maggior discrezione…  Ad ogni modo, quando un giudice di gara, John Semple, capì che dietro il numero 261 si nascondeva una ragazza, provò a fermarla, con le cattive, ma il violento assalto fu respinto da Miller e gli altri.

Fino al momento dell’aggressione Switzer non si era probabilmente resa conto di quale rischio stesse correndo per il fatto di voler, semplicemente, partecipare a quella maratona. L’attacco subìto l’aveva mandata in confusione, per un attimo la sua mente fu attraversata da dubbi, paure e sensi di colpa, poi arrivò la decisione di continuare.  

Sapevo che se mi fossi ritirata, nessuno avrebbe creduto che le donne erano in grado di correre 26 miglia e più. Tutti avrebbero pensato che era stata solo una trovata pubblicitaria. Se mi fossi ritirata, per gli sport femminili ci sarebbe stata una forte battuta d’arresto e non un progresso3

La ventenne del Winsconsin era, dunque, divenuta consapevole di star correndo non solo per sé, ma per un intero genere e così, seppur scossa da quanto accaduto, riuscì ad arrivare al traguardo in quattro ore e venti minuti. Bobbi Gibb, nuovamente dispersa tra i concorrenti senza numero e identità, ci aveva messo quasi un’ora di meno, ma era un dato che passava in secondo piano rispetto all’impresa compiuta da Switzer. E passò ancor più in secondo piano quando iniziarono a circolare le foto del momento in cui Semple aveva tentato di bloccarla.
Quelle immagini, che mostravano a quale violenza si poteva arrivare per conservare un ingiustificato privilegio maschile, hanno fatto di Kathrine Switzer un simbolo della lotta contro le disuguaglianze di genere in ambito sportivo e, a distanza di più di cinquanta anni, non hanno perso la loro forza espressiva.

Fonte: K. Switzer, The Real Story of Kathrine Switzer’s 1967 Boston Marathon

Puntate precedenti: Il barone e il ruolo delle donne alle OlimpiadiMarie-Louise Ledru, audace pedestre, Violet Piercy, la pioniera che non fu presa a esempio, Times are changing: gli anni ’60 e la maratona femminile
Puntata successiva:Il lascito di Switzer alla maratona