In Francia, prima che in altre nazioni europee, invenzione e successiva diffusione della bicicletta avevano aperto una crepa nel muro che separava in modo netto i ruoli assegnati dalla società ai rappresentanti dei due sessi. Tra i vari benefici che il nuovo mezzo di trasporto aveva recato alle donne, due possono essere considerati alla base del successivo sviluppo, sia pur sotto traccia, di un automobilismo al femminile: la completa autonomia negli spostamenti che dava la bicicletta e la possibilità di praticare per il solo piacere di farlo un’attività di svago, di diporto, per usare il termine arcaico da cui la parola “sport” deriva. Senza un minimo tornaconto personale, sarebbe stato, però, difficile assistere a una sfida tra conduttrici di tricicli motorizzati già nell’estate del 1897.
Il tornaconto era quello del conte Jules-Albert De Dion (1856-1946), nativo della Loira, ma perfettamente inserito nella Parigi bene1. Egli era stato uno dei primi a seguire le orme di Benz e, tra il 1893 e il 1894, si era convinto a virare verso il motore a scoppio, nonostante la fabbrica messa su da lui e da George Bouton, fosse leader nella produzione di automobili a vapore. Anzi, più precisamente, la decisione spinse il terzo socio, Charles Trépardoux, ad abbandonare la società che da quel momento assunse la denominazione De Dion-Bouton.

La Parigi-Rouen del 22 luglio 1894, considerata la prima gara automobilistica della storia 2, fu per De Dion una scommessa vincente e, al tempo stesso, una conferma della bontà della sua scelta recente. Alla guida del suo trattore a sei posti alimentato a vapore, il conte vinse gara e cospicuo premio annesso, ma dietro di lui Peugeot e Panhard & Levassor a petrolio, spinte dai motori endotermici Daimler, monopolizzarono la classifica fino al dodicesimo posto.
Già nel 1896 la De Dion-Bouton aveva pronta la sua prima petite voiture, di fatto un triciclo su cui era stato innestato un piccolo motore a scoppio e, attraverso manifesti pubblicitari, mandò il messaggio che il veicolo, al pari dei mezzi a pedale, poteva essere guidato anche da una ragazza. Da un ultraconservatore fervente antidreyfusardo come De Dion non ci si sarebbe probabilmente aspettata la diffusione di un’idea che si inseriva all’interno del solco già lanciato dalla bicicletta ed era, pertanto, potenzialmente
destabilizzante per la «conservazione dell’ordine dei sessi», ma evidentemente il senso degli affari ebbe la meglio. La differenziazione dei prodotti e il coinvolgimento di nuovi soggetti poteva, infatti, essere un modo per far restare alta la domanda in un paese come la Francia che, da parte sua, aveva un’offerta senza eguali e per questo era diventata terreno fertile per le sfide tra case costruttrici che stavano a loro volta aprendo la strada all’automobilismo sportivo.

Così, quando l’11 luglio 1897 all’ippodromo Longchamps di Parigi andò in scena lo Championnat des Chauffeuses, tutte le otto partecipanti erano in sella a tricicli De Dion-Bouton. Al di là degli interessi del conte costruttore, la natura promozionale dell’evento ideato dal giornalista sportivo Pierre Lafitte era palese e ricalcava una modalità ormai rodata, quella della corsa in bicicletta riservata alle ballerine dell’Opéra o alle attrici di teatro, in cui la donna rappresentava un’attrattiva in sé o, al massimo, un oggetto tramite cui veicolare messaggi a fini commerciali. Non a caso, una delle chauffeuses, l’attrice di rivista Elene Jouanny (?-?), sempre nel 1897 sarebbe comparsa alla guida di una De Dion-Bouton su un manifesto che pubblicizzava gli pneumatici Dunlop3.
Forse perché le cicliste erano più visibili e, quindi, più attraenti delle conduttrici in ottica maschile, forse perché i costi di una corsa tra veicoli a motore erano più alti, fatto sta che l’esperimento di Longchamps non sembra aver avuto molto seguito. Merita però di essere lo stesso ricordata Léa Lemoine (?-?), la vincitrice della competizione che prevedeva tre batterie di qualificazione da 3500m e una finale disputata sulla distanza di 7000m. Costumista e, quindi, presumibilmente anche lei ingaggiata in quanto legata al mondo
dello spettacolo, si sarebbe ben difesa nove giorni dopo in una gara di 20km, la Saint Germain-Ecquevilly-Saint Germain, arrivando quinta su una ventina di partenti e per di più davanti a un veicolo gemello condotto da tale “Wolff”. Grazie a Léa Lemoine, l’automobilismo mostrò, quindi, alla prima occasione di avere la vocazione di sport open, almeno rispetto al genere, ovvero di disciplina in cui, a parità di mezzo meccanico, donne e uomini potevano gareggiare insieme e avere le stesse possibilità di ben figurare. Purtroppo, non abbiamo altre notizie di corse disputate dalla Lemoine.

Per questo sembra davvero un anacronismo quanto successo nel 2019, ovvero il varo della W Series, una sorta di Formula 3 monomarca, primo campionato nella storia della FIA riservato a sole conduttrici. Il fatto è stato commentato con sdegno da pilote come la britannica Pippa Mann (1983), attualmente impegnata in IndyCar, che senza mezzi termini ha parlato di «giorno triste per lo sport motoristico» e di «segregazione» . La FIA, che nel 2009 ha costituito la Women in Motorsport Commission per «incoraggiare una maggiore partecipazione delle donne negli sport motoristici», coinvolgendo molte donne pilota o ex pilota, prima fra tutte Michèle Mouton (1951) che nel 1982 sfiorò il titolo mondiale rally, ha dunque deciso di dare il suo beneplacito al modello non open, sostenuto in commissione da Carmen Jordà (1988), avvenente pilota spagnola di GP3 senza risultati degni di nota all’attivo.

Per le W Series si punta sull’esposizione mediatica e, a giudicare da quanto offre il sito ufficiale della categoria, molte delle pilote scelte per la prima stagione agonistica hanno una discreta cura per la propria immagine. L’impressione è che, proprio come a Longchamps nel 1897, si punti sull’oggetto donna per attirare investimenti e interesse. Certo, non escludiamo che in futuro qualcuna delle ragazze della W Series arrivi in Formula 1, ma ci sono tutte le premesse affinché il processo avvenga senza intaccare alla radice quei tabù culturali e sociali che impediscono a uomini e donne un pari accesso allo sport motoristico e, ancor più, impongono che le loro professionalità vengano narrate in modo diverso. Per avere un’idea di tale differenza, è sufficiente fare su google una ricerca per immagini con le chiavi “Lewis Hamilton” e “Danica Patrick”: capire dai risultati ottenuti che anche nel secondo caso parliamo di una pilota, anzi dell’unica donna finora in grado di vincere una gara del campionato IndyCar, e non di un’attrice o di una modella non è così semplice.

Tratto da F. Greco, Le prime donne dell’automobile, Quaderni della Società Italiana di Storia dello Sport, n° 8, p. 121-133