La maratona delle donne: quarta puntata
In fondo basterebbe leggere questo quanto scritto nel 1872 dalla rivista sportiva specializzata Bell’s Life in London, per capire come sotto non ci fosse nessuna questione biologica, derivante dalla diversità tra fisico femminile e fisico maschile e come l’argomentazione medica sulla inidoneità delle donne a correre una maratona arrivasse solo in un secondo tempo, a supporto della vera ragione, quella sociale e culturale, diretta espressione della volontà maschile imperante:
We most emphatically say that public contests of strength and wind are not likely to find favour in the eyes of gentle English girls. […] Public races, whether in the water or on land, are, to our English modes of thinking, only fit for hoydenish lasses at a country fair. […] Moreover, woman is physically unfit for contests of the kind we have mentioned1
Eppure era solo successo che alcune donne si erano messe a fare lunghe camminate per più giorni di seguito per sentirsi più in forma e magari riuscire a emulare il Capitano scozzese Barclay, che nel 1809 aveva percorso 1000 miglia in 1000 giorni (e guadagnato 1000 ghinee: senza il gusto per la scommessa tipico dei britannici, il professionismo sportivo non sarebbe mai nato). Camminare, spostarsi in autonomia era evidentemente un pericoloso sintomo di voglia di indipendenza femminile ed ecco allora un settimanale del settore parlare di attività fisica non adatta a ragazze a modo e, solo in seconda battuta, di pratica dannosa per la salute.
Rovesciando il punto di vista, si potrebbe dire che finché una generazione di ragazze e di donne non avesse ritenuto necessario rivendicare per sé e per tutte il diritto a partecipare a competizioni ufficiali su lunghe distanze e, dunque, non avesse voluto violare quel vincolo di natura sociale-culturale-biopolitica alla base di tale divieto, le cose sarebbero andate sempre nello stesso modo. Del resto, la britannica Violet Piercy aveva già ampiamente mostrato quanta tenuta e quanta resistenza potesse avere una donna allenata, i giornali avevano anche documentato le sue imprese, ma di fatto in patria nessuna aveva seguito le sue orme2.
«Your old road is / Rapidly aging. / Please get out of the new one» cantava Bob Dylan nel 1964 e, in effetti, la svolta anche nella conquista della maratona da parte delle donne si ebbe in quegli anni. Nel 1967 un evento fortemente simbolico avrebbe sancito il punto di non ritorno, i tempi, però, già da un po’ stavano cambiando.
Non era un caso, ad esempio, che tre runner, con una comune matrice anglosassone, ma provenienti da tre continenti diversi (e questo è il dato più interessante) portarono a termine una maratona tra il 1963 e il 1964, facendo segnare un crono via via migliore.
La prima fu l’americana Merry Lepper, che, fregandosene delle restrizioni, si intrufolò tra i partenti della Culver City Marathon del 1963, dopo che era stato dato il via ufficiale, e arrivò al traguardo accreditata di un tempo di 3h37′. Con lei c’era un’amica, Lyn Carman, che però si ritirò nel corso della gara: il loro progetto era quello di diventare, insieme, le prime a finire una maratona, non avendo contezza di quanto Revithi, Ledru o Piercy avessero fatto prima di loro, in passato. Del resto, cancellare dalla memoria collettiva i risultati ottenuti dalle singole è stato sempre il modo migliore per preservare privilegi di genere.
La seconda fu Dale Greig, nel maggio del 1964. Questa volta furono proprio gli organizzatori della maratona dell’Isola di Wight a volerla al via, lei che era campionessa nazionale scozzese di cross. Ovviamente la Women’s Amateur Athletic Association (WAAA) era contraria e, così, Greig fu costretta a gareggiare con un’ambulanza dietro di sé, pronta a raccoglierla in caso di collasso, e dovette partire un po’ prima del gruppo dei maschi perché correre insieme con loro sarebbe stato sconveniente. L’ambulanza non servì, anzi nelle ultime fasi della gara la scozzese superò qualche concorrente («Mi dispiacque per gli uomini che passai nei tratti finali — sembravano imbarazzati», ricordava con molta ironia) e arrivò in fondo realizzando un tempo inferiore a quello di Lepper.
Infine, nel luglio 1964 fu la volta di Mildred Sampson, la prima a scendere sotto le 3h20′. Anche dietro questa impresa, non mancano le note di colore (era andata a ballare la sera prima della gara, era partita senza fare colazione). Ad ogni modo, la 31enne neozelandese si allenava con Bill Baillie e Ivan Keats, che a ottobre dello stesso anno avrebbero rappresentato lo stato dell’emisfero australe all’Olimpiade di Tokyo (rispettivamente, nei 5000m e nella maratona) e si racconta che furono proprio loro a convincerla a partecipare alla competizione organizzata ad Auckland dall’Owairaka Athletic Club, forse per attrarre interesse mediatico e sponsor.
Quanto riportato in merito alla progressione della migliore prestazione femminile nella maratona da parte della IAAF -la federazione internazionale di atletica- o della ARRS -associazione di statistici che si occupano delle gare su strada-, suggerisce che in quegli anni anche in Canada (Wilton, maggio 1967) e in Germania Ovest (Pede-Erdkamp, settembre 1967) c’erano runner in grado di concludere i 42195 metri d’ordinanza in tre ore e poco più. Insomma, era arrivato il momento di forzare davvero la mano e scoperchiare definitivamente la cappa di ipocrisia che teneva le donne lontano dalle maratone con la ‘M’ maiuscola.
Nota: Come forse si evince dalla vaghezza di alcuni riferimenti statistici da me fatti, c’è tutto un mondo complesso dietro il riconoscimento o meno di questa o quella prestazione da parte di IAAF e ARRS. Si rimanda qui per una statistica più completa. In questa sede è sufficiente aggiungere alcune cose:
– si parla di record del mondo nella maratona e in tutte le prove su strada, sia maschili che femminil, solo a partire dal 2002; in riferimento ai tempi ottenuti prima del 2002 è più corretto parlare di “migliore prestazione mondiale”
– la IAAF riconosce come ufficiali i crono di Lepper, Greig, Sampson, quello della canadese Wilton (maggio 1967) e quello della tedesca ovest Pede-Erdkamp (settembre 1967); la ARRS non considera i tempi di Lepper e di Sampson e, in genere, non dà i crismi dell’ufficialità a tutte le prestazioni frutto di corse in solitaria dell’atleta.
In foto: Merry Lepper (la runner a sinistra)
Puntate precedenti: Il barone e il ruolo delle donne alle Olimpiadi, Marie-Louise Ledru, audace pedestre, Violet Piercy, la pioniera che non fu presa a esempio
Puntata successiva: Un giorno, alla maratona di Boston