La maratona delle donne: terza puntata

Quando il 13 giugno del 1936 le fu concesso di percorrere i 42195 metri che separavano il Castello di Windsor dal White City Stadium lo stesso giorno della Polytechnic Marathon, anche se staccata dal gruppo dei concorrenti ufficiali, Violet Piercy aveva 46 anni e la strada la conosceva già. Le donne non potevano partecipare alla gara vera e propria, ma questa presenza, sia pur ufficiosa, rappresentava per la britannica il coronamento di un inseguimento iniziato almeno dieci anni prima. Perché, dietro il nome davvero poco accattivante scelto dagli organizzatori (il club sportivo Polytechnic Harriers), si nascondeva lo stesso tragitto, la stessa maratona che il 24 luglio 1908 aveva visto Dorando Pietri andare in crisi irreversibile dopo esser entrato per primo nello stadio, riuscire a tagliare il traguardo solo perché sorretto e accompagnato da alcuni giudici e, per questo, essere privato della medaglia d’oro olimpica. Un finale epico, un dramma sportivo andato in scena sotto gli occhi della regina Alessandra che, fortemente impressionata dall’accaduto, aveva deciso di rendere ugualmente onore al corridore italiano e lo avevo omaggiato con una coppa d’argento.

Piercy era nata in un sobborgo londinese e nel 1908 aveva diciotto anni. Facile, quindi, immaginare che fosse rimasta anche lei colpita dalla vicenda di Pietri e ne avesse colto un aspetto sfuggito ai più: correre per 42 km di fila avrebbe dimostrato che le donne hanno capacità di resistenza in tutto paragonabili a quella degli uomini; correre quei 42195 metri tra Windsor e il centro di Londra avrebbe mostrato che una donna era in grado di portare a termine una maratona che aveva visto un uomo, anzi un atleta arrendersi a pochi passi dall’arrivo, quando la gloria sembrava ormai alla portata. Poteva diventare una nuova Gertrude Ederle, l’americana che aveva attraversato a nuoto il Canale della Manica nell’agosto del 1926, facendo segnare un tempo inferiore a quello realizzato dai nuotatori uomini che l’avevano preceduta.
Non a caso, la prima run della britannica è di pochi mesi dopo, ottobre 1926: una domenica pomeriggio in 3h40′ riuscì a coprire circa 20 delle 26 miglia e spiccioli che l’intero percorso prevedeva, anche perché, dalle sei in poi, dovette combattere contro il traffico urbano1.
Il risultato era notevole, la stampa era stata avvertita dalla stessa Piercy in anticipo… normale, quindi, che chi non aveva assistito all’impresa ne ingigantì la portata, affermando senza fare opportuno fact checking che una componente della squadra olimpica britannica aveva portato a termine con successo la Polytechnic Marathon! In realtà, la corritrice era solo membra del club sportivo London Olympiades e quell’anno la maratona londinese si era già corsa, in maggio!   

Come, però, sottolinea lo storico Peter Lovesey, gli stessi giornali che avevano rilanciato la notizia per fare “clickbait ante litteram”, di fronte all’evidenza che una donna allenata poteva cimentarsi anche su lunghe distanze, non esitarono a rifugiarsi nel solito argomento medico e ad ammonire le ragazze dal seguire l’esempio di Piercy perché…

only a few years ago we saw Dorando nearly kill himself in performing such a feat. For women it ought to be prohibited2   

Da parte sua, la britannica sapeva quali corde toccare per provare a incidere davvero nell’immaginario collettivo: dichiarazioni sull’utilità di diffondere l’atletica femminile per forgiare una «razza di donne capace di e adatta alla maternità»3 e rivendicazioni sul fatto che le donne inglesi erano capaci di compiere imprese sportive paragonabili a quella di Gertrude Ederle, ovvero maternità e orgoglio nazionale.  

A dispetto del titolo di “Marathon Girl” che i giornali le avevano dato, se c’era una persona conscia che 20 miglia non facevano una maratona, era proprio Piercy. Nel 1928 riprovò in solitaria a fare il percorso della Polytechnic Marathon, ma dopo tre ore e mezza, arrivata nuovamente a 20 miglia, desistette («A galant failure», un fallimento galante scrisse il Daily Mirror). Negli anni successivi alcuni problemi personali la tennero lontana dalla strada, ma a partire dal 1934 ricominciò a ricomparire qua e là sui giornali, ad avvertire la stampa quando aveva in mente sfide e a portarle a termine (vedi la salita dei 311 gradini del Monumento al Grande incendio di Londra dopo cinque miglia fatte a piedi). Poi, finalmente, il 13 giugno 1936, a 46 anni, quello che possiamo considerare il giubileo della sua carriera di atleta, purtroppo solo ufficiosa. Il tempo impiegato per andare dal Castello di Windsor al White City Stadium fu di 4h25′, ovvero un’ora e un quarto in meno della francese Marie-Louise Ledru, l’unica donna ad aver fatto segnare prima di lei un tempo ufficiale su un percorso di 40km o più.

Al di là della soddisfazione di aver portato vittoriosamente a termine la sua battaglia personale e di genere contro la maratona, nella vicenda umana e sportiva di Violet Piercy non ci sono, purtroppo, molte altre luci. Innanzitutto, la sua caparbietà, le sue prove di resistenza non produssero emule: quando nell’ottobre del 1934 organizzò la prima gara femminile su strada della storia dell’atletica britannica (distanza da percorrere, 3 miglia)4, sperava in una cinquantina di partenti, ma solo in tredici si presentarono. Perché nessuna di queste tredici si dedicò alla strada non è dato saperlo, ma forse il fatto che dal 1928 l’atletica femminile era stata ammessa all’Olimpiade e che su pista non si andava in nessun caso oltre i 1500 metri può aver influito. 
Un altro elemento non da trascurare è che la britannica era, in realtà, molto più una marciatrice che una runner (non era la velocità la sua arma migliore, ma la resistenza) e nel corso degli anni non aveva provato a migliorare il suo equipaggiamento tecnico, visto che era solita utilizzare delle scarpe di cuoio con cinturino e tacco basso che certamente non permettevano una presa soddisfacente sull’asfalto5.
Per il resto, niente di nuovo. La capacità dei vertici delle federazioni sportive di riferimento di ignorare e lasciar così dimenticare le conquiste ottenute da singole donne in ambiti “maschili” è cosa ben nota: nonostante Piercy fosse comparsa su riviste e quotidiani (anche esteri) tra il 1926 e il 1936… nonostante avesse partecipato a un programma della BBC… nonostante il cinegiornale British Pathé avesse girato una eccezionale clip su di lei che si può ancora ammirare in rete… i primi due libri di storia dell’atletica femminile scritti in Gran Bretagna ebbero agio di non citarla6.
Così, quando nel 1964, la scozzese Dale Greig portò a termine la maratona dell’Isola di Wight poté ben pensare di esser stata la prima donna britannica a farlo!

Per maggiori dettagli su Violet Piercy si consiglia l’articolo di P.Lovesey

Puntate precedenti: Il barone e il ruolo delle donne alle Olimpiadi, Marie-Louise Ledru, audace pedestre
Puntata successiva: Times are changing: gli anni ’60 e la maratona femminile