Le donne e i poco olimpici Giochi del 1900: quinta puntata

Se c’è uno sport in cui le donne già a fine Ottocento potevano ambire a vincere campionati nazionali in Francia, Regno Unito o Stati Uniti, questo è il tennis. Anzi il lawn tennis, come si teneva a precisare al tempo1.
Del resto, se c’è una donna che poteva definirsi atleta a tutti gli effetti, tra le venti o poco più che parteciparono alle gare sportive organizzate nel corso dell’Esposizione Universale di Parigi e che poi vennero considerate olimpiche, questa è la tennista Charlotte Cooper.

Quando si presentò al Cercle des Sports dell’Île de Puteaux a inizi luglio del 1900, la britannica aveva 29 anni e un palmares già molto ricco. Aveva vinto almeno una volta il singolare femminile all’Irish Championship, a Wimbledon e al Nothern Championship, i tre tornei più importanti del tempo2. Anzi, a Dublino, i successi erano stati due (1895 e 1898) e sull’erba dell’All England Club di Wimbledon addirittura tre (1895, 1896, 1898), cui vanno aggiunti i sei nel doppio misto che avrebbe, però, ottenuto lo status di torneo ufficiale solo molti anni dopo.
All’Île de Puteaux Cooper seppe confermare le aspettative e batté in semifinale la campionessa americana del 1899, Marion Jones, e in finale la campionessa francese in carica, Yvonne Prévost3. Nel doppio misto le cose andarono in pratica allo stesso modo, al netto della considerazione che Cooper, Jones e Prévost ebbero come partner tennisti britannici che avevano già vinto il singolare maschile a Wimbledon o che lo avrebbero vinto in futuro.

A fare di Charlotte Cooper una vera professionista ante litteram piuttosto che una donna che aveva avuto il tempo di dedicarsi allo sport agonistico prima di rientrare a occupare il ruolo cui era destinata in società, è, però, quanto avvenne dopo. O, meglio, quanto continuò ad avvenire dopo, nonostante il matrimonio contratto con Alfred Sterry nel gennaio 1901 e la nascita di due figli (Rex, 1903, e Gwen, 1905): la britannica continuò a giocare e a vincere, in Germania nel 1901, in Svizzera nel 1902, a Wimbledon altre due volte nel singolare femminile (1901 e 1908) e un’altra volta nel doppio misto (1908). A 42 anni, nel 1913, ebbe ancora la forza e la voglia di iscriversi al doppio femminile, che quell’anno l’All England Club aveva finalmente inserito nel programma ufficiale: lei e Dorothea Lambert Chambers arrivarono in finale e si dovettero arrendere per problemi fisici quando erano a due game dalla vittoria.
A proposito, Charlotte Cooper era diventata quasi completamente sorda all’età di 26 anni, ma in fondo questo è solo un ulteriore indizio di quanto la britannica avesse lavorato sin dall’adolescenza sulle proprie capacità di concentrazione. Del resto, è la testa quella che serve per  continuare ad aver voglia di vincere su di un campo da tennis, per così tanti anni.

Ad ogni modo, c’è a monte di tutto, nella vita di Cooper un aspetto che va opportunamente contestualizzato e riguarda la famiglia di provenienza: come è possibile che la figlia di un mugnaio poté prendere settimanalmente lezioni nel tennis club della cittadina del Middlesex in cui era nata?4
Evidentemente, nell’Inghilterra vittoriana possedere un mulino dava in un contesto rurale come quello di Ealing ancora una certa agiatezza e garantiva l’appartenenza alla middle-class. Poi, come spiega Kathleen E. McCrone5, le donne (e, quindi, anche le ragazze) della middle-class

won public approval of their partecipation in individual sports much more easily than in team games, because they seemed much more conducive to the production of aesthically pleasing images and much less competitive and overtly masculine6

Questa approvazione era arrivata prima per il croquet, la disciplina che brandendo fenicotteri come mazze pratica la Regina di Cuori in Alice nel paese delle meraviglie. Intorno agli anni Cinquanta dell’Ottocento i club esclusivi di mezza Gran Bretagna avevano, infatti, compreso che aprire i match di croquet alle donne moltiplicava le occasioni per i loro membri di incontrare, conoscere, frequentare signore e signorine di medio-alta estrazione sociale. Senza che lo spirito competitivo del gioco ne venisse meno.
Poi era arrivato il più dinamico e meno tattico tennis e i prati degli esclusivi club di mezzo Regno Unito tipo Wimbledon erano stati consacrati al nuovo gioco. E se, da un lato, la controparte maschile non voleva perdere la possibilità di usare gli incontri sportivi a mo’ di appuntamenti galanti, anche le donne non volevano più rinunciare alla dimensione agonistica che il mondo dello sport portava con sé. Solo che, per poter continuare a godere dell’approvazione di cui sopra, giocavano a tennis «in the same long dresses they wore for garden parties»7.   

Per le donne la possibilità di offrire al pubblico maschile un’immagine di sé «aestethically pleasing» era, dunque, una sorta di lasciapassare, ma era anche il prezzo da pagare e non solo perché nelle giornate più calde esibirsi in gonna lunga e corsetto poteva portare a svenimenti: l’aver dovuto subordinare la pratica di attività sportive all’aria aperta al rispetto di canoni puramente estetici fissati da uomini o, comunque, settati sul desiderio maschile, è all’origine di quella cattiva abitudine che hanno ancora in molti di corredare le cronache di eventi sportivi al femminile con giudizi riguardanti l’avvenenza o meno delle praticanti. Tanto che sembrano svanire in un istante i cento e più anni che passano tra il commento “tecnico” apparso su La Vie Au Grand Air del 22 luglio 1900 in merito alle finaliste del singolare femminile («M.lle Prévost est un peu moins savant [di Miss Cooper], mais combien plus gracieuse») e il titolo “affettuoso” regalato dal Quotidiano Sportivo alla squadra italiana femminile di tiro con l’arco bronzo a Rio de Janeiro 2016 («Il trio delle cicciottelle sfiora il miracolo olimpico»).

Puntate precedenti: Le donne e i poco olimpici Giochi del 1900, Il fantasma della contessa de Pourtalès, Margaret Abbott, la golfista con il cappellino, Elvira Guerra, sportiva con abbigliamento consono

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