Le donne e i poco olimpici Giochi del 1900: quarta puntata

Rigidamente composta all’interno di un abito scuro che le copre anche i piedi, la quarantacinquenne Elvira Guerra ci appare elegante e austera mentre monta il suo Libertin all’amazzone, ossia con ambo le gambe da uno stesso lato. La foto campeggia sulla copertina de La Vie au Grand Air del 23 dicembre 1900. Quello stesso anno «la celebre écuyère de haute école» aveva preso parte al Prix International de la selle, concorso organizzato nel corso dell’Esposizione Universale di Parigi che solo cento anni dopo il CIO avrebbe considerato degno del bollino a cinque cerchi!1 Fatto che avrebbe reso Guerra, a sua completa insaputa, la prima donna di nazionalità italiana ad aver preso parte a una gara olimpica2.

La competizione, un po’ come l’odierno dressage, premiava impatto scenico, stile e capacità di riprodurre le andature da parte del singolo cavallo, sotto la guida del proprio cavaliere. O della propria cavallerizza, visto che tra i cinquantuno iscritti c’era Elvira Guerra e, forse, anche una concorrente francese di cui si conosce solo il cognome, M.me Moulin. Il concorso era aperto a tutti gli cheval de selle, «senza distinzioni di provenienza, di età, di taglia» e «diciamolo subito, ne uscì un’accozzaglia deplorevole», a sentire il cronista Jean Romain de Le Sport Universel illustré3. La giuria dichiarò vincitore The General, purosangue inglese di proprietà della principessa Murat, ma montato dal principe Napoléon Murat, bisnipote di Napoleone Bonaparte. Altri tre esemplari ebbero riconoscimenti e per i binomi restanti non fu stilata una graduatoria ufficiale. Tuttavia Romain nel suo pezzo citava Libertin: ergo, tanto male non doveva essere andata l’esibizione di Guerra rispetto alla «mediocrità generale».

Ad ogni modo, visto che di competizione si trattava, un dubbio sorge ripensando alla copertina de La Vie au Grand Air e a una foto che appare su Le Sport Universel illustré e che ritrae sempre l’italiana: l’indossare una lunga gonna e il dover montare all’amazzone non erano per lei delle limitazioni? non le impedivano di muoversi con la stessa libertà che avevano i suoi avversari maschi?
Di certo, all’epoca era impensabile per una donna cavalcare in pubblico in arcione o indossando abiti più comodi senza essere malvista: nella seconda metà dell’Ottocento le prime ragazze fantino che provarono a calcare le piste degli ippodromi francesi furono fortemente osteggiate: l’esperimento «non fu ben accolto dal pubblico […] a causa delle divise […] che mettevano in “risalto deplorevole” le fattezze delle amazzoni»4.
Guerra, però, era l’ultima discendente di una nota famiglia circense e si era specializzata proprio nell’alta scuola, «un’equitazione di ritmo lento e solenne, adatta a cavalieri in abiti da parata, intesi a dar spettacolo», come la si definisce ne I cinque libri del sapere5.
Tutta quella bardatura, il corsetto e la lunghissima gonna facevano, quindi, parte del personaggio che l’italiana metteva in scena per guadagnarsi da vivere in Francia, dove si era spostata all’inizio degli anni Ottanta del XIX secolo dalla natia San Pietroburgo e dove aveva raggiunto un discreto successo, tanto che una via di Bordeaux ancora oggi la ricorda.
Scriveva di lei nel suo saggio sulla storia del circo il barone di Vaux: «amazzone di una eleganza inappuntabile», «fissa, immobile sulla sella», «al passo, al trotto e al galoppo ha una regolarità inappuntabile e, in più, esegue il tutto con una vivacità e un brio notevoli». Insomma, era bravissima, anche se, a giudizio del nobile transalpino, per essere la migliore in assoluto le mancava un po’ più di infarinatura di scuola francese. Ovviamente.

Elvira Guerra non era, dunque, di estrazione aristocratica, né proveniva da una famiglia altolocata, come la contessa de Pourtalès o come le partecipanti che arrivarono ai primi posti del torneo di golf. L’andare a cavallo, arte nella quale eccelleva, era, però, un’attività sportiva quasi esclusivamente riservata alle classi abbienti: non a caso, un Bonaparte aveva vinto la competizione cui aveva partecipato l’italiana e un conte italiano, Gian Giorgio Trissino, si era ben comportato in altre due gare di equitazione ospitate all’interno della stessa manifestazione6. Anche la tennista Charlotte Cooper, come si vedrà, non era ricca di famiglia. Nondimeno la disciplina che le consegnò due successi nel corso dell’Expo era un tipico passatempo dell’aristocrazia e dell’alta borghesia, anche perché possedere campi da tennis costituiva al tempo una sorta di status symbol (e, se ci pensate, lo è ancor oggi).
Ne consegue che, all’alba del Novecento, era più tollerabile una donna che si dedicava a sport praticati di norma da una ristretta cerchia di persone, piuttosto che una ragazza che volesse cimentarsi in gare di corsa o in bicicletta o, addirittura, giocare a calcio. In questo senso, si può affermare che la linea di separazione demarcata dalla classe era più forte di quella costituita dal genere

C’è, però, un altro fattore fondamentale che rendeva equitazione, vela, tennis, croquet o golf più “adatti” alle donne di atletica, ciclismo o football: la mise di gioco. Cooper, Guerra, Abbott, la giocatrice di croquet Marie Ohier ed Hélène de Pourtalès poterono gareggiare senza perdere la loro femminilità agli occhi degli spettatori maschi perché indossavano un vestiario “consono”, fatto di camicie accollate e a maniche lunghe, di corsetti, gonne ampie e persino di cappellini e ombrellini.

Puntate precedenti: Le donne e i poco olimpici Giochi del 1900, Il fantasma della contessa de Pourtalès, Margaret Abbott, la golfista con il cappellino

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