Ci sono almeno quattro modelli culturali di femminilità cui comunemente si fa riferimento: quello della donna inferiore, quello della donna passiva, quello della donna oggetto e quello della donna angelo del focolare. Pur rifiutando nella maniera più assoluta questi modi di considerare la donna, anche i più accesi sostenitori del femminismo non riescono a immaginare il tipo «donna pilota di F.1». Ma se per coloro che si battono per l’uguaglianza sociale la ragazza da Grand Prix va ben al di là dei più rosei obiettivi di successo, è ben vero che per quei piloti della ristretta elite della F.1 che considerano la donna un essere inferiore, una ragazza da G.P. costituirebbe una forte incrinatura del ruolo magico e virile dell’uomo pilota1.

Così la giornalista Gabriela Noris introduce su Auto Sprint l’intervista fatta sul finire del 1974 a Maria Grazia “Lella” Lombardi (1941-1992). Vincitrice nel 1970 del titolo italiano di Formula 850 e nel 1971 del campionato di Formula Ford Mexico, la Lombardi è riuscita a guidare una Formula 1, pur senza qualificarsi, al Gran Premio di Gran Bretagna del 1974, sulla scia dei buoni risultati ottenuti nel corso dell’anno nel Campionato Europeo di Formula 5000, e adesso attende fiduciosa un volante per l’intera stagione 1975. Il fatto ha, però, evidentemente messo in subbuglio la «ristretta elite della F.1». Lella, infatti, ha «il dente avvelenato» nei confronti di Clay Regazzoni, con cui era «in amicizia» e che, invece, pare aver esternato la sua contrarietà a un eventuale sbarco ufficiale della pilota alessandrina nella categoria regina della velocità.
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Prima di andare in stampa arriva la conferma: per lei è pronta una March del team di Max Mosley per tutto il 1975 o quasi. Il titolo dell’articolo, Il tabù, viene allora integrato con l’aggettivo “rientrato”, almeno lì dove questa aggiunta non comporta un complesso lavoro per reimpaginare il tutto.
Il dubbio che questo tabù sia davvero rientrato è, però, più che legittimo, visto che Lella Lombardi è, a tutt’oggi, l’ultima donna a essersi qualificata per una prova iridata di Formula 1 (la seconda in assoluto) e l’unica ad aver ottenuto punti mondiali o, più precisamente, mezzo punto nel confuso e tragico Gran Premio di Spagna del 1975.
Persino chi segue con assiduità gli sport motoristici si meraviglierebbe nello scoprire che già nel primo decennio del XX secolo c’erano donne pilota in Europa e negli Stati Uniti più di quanto effettivamente si stupisca adesso nel non vederne regolarmente in gara oggi in tante competizioni sotto egida FIA. Segno che l’automobilismo al femminile, pur avendo scritto le sue prime pagine in un momento in cui sport come atletica leggera, pugilato o calcio erano interdetti alle donne, pur avendo saltuariamente prodotto campionesse in grado di battere i colleghi maschi, è rimasto sempre ai margini.
Alla luce di tali considerazioni, diventano elementi utili a comprendere se e come si siano evoluti nel corso del tempo tutti quei fattori sociali, culturali, politici che hanno favorito, regolato, impedito alle donne l’accesso all’automobilismo sportivo, le storie personali e/o sportive di tre pioniere, Bertha Benz, Léa Lemoine e Camille du Gast. Intendendo con pioniere questo termine in senso ampio, ovvero coloro che ponendosi alla guida di un’auto hanno sfidato tabù e pregiudizi della loro epoca, ma anche il modo in cui tali storie sono state raccontate dai contemporanei e poi riprodotte dai posteri.

 

Tratto da F. Greco, Le prime donne dell’automobile, Quaderni della Società Italiana di Storia dello Sport, n° 8, p. 121-133