Forse questa sarà la volta buona. L’ultima “prima volta”, perché dal Secondo dopoguerra ad oggi il Tour de France femminile ha conosciuto tante partenze, ma anche altrettanti stop dovuti a problemi economici o al disinteresse, se non proprio all’ostilità verso il movimento femminile, mostrati per decenni dall’UCI e da chi opera all’interno del mondo del ciclismo internazionale.

Il primo via nel 1955, il primo stop anche. Dietro quell’unica edizione del Tour de France féminin il giornalista sportivo Jean Leulliot, un personaggio abbastanza controverso, per non dire di peggio: nel corso della Seconda guerra mondiale, con la Francia occupata dai nazisti, era divenuto direttore della rubrica sportiva del giornale collaborazionista La France socialiste e, per questo, le autorità tedesche gli avevano dato l’incaricato di organizzare una corsa a tappe che sopperisse alla mancanza del Tour maschile, che quelli de L’Auto si rifiutavano di organizzare in regime di occupazione1. A guerra conclusa, Leulliot venne comunque risparmiato dalle accuse di simpatie verso il nazismo, perché i suoi colleghi della carta stampata testimoniarono a suo favore, e così si rimise a organizzare corse in bici. Dietro l’idea del Tour femminile del 1955, forse, la speranza di trovare qualcosa di innovativo e spendibile sul mercato, ma le cose, anche ai suoi occhi, non andarono bene2. Come riporta il blog Conquista,  Leulliot rimase impressionato dal coraggio e dalla resistenza mostrata dalle cicliste, ma non apprezzò il loro modo di correre, la loro poca inclinazione a sferrare attacchi. Giurò pertanto che non avrebbe mai più organizzato corse femminili:

Non organizzerò mai più questa corsa,  perché le donne sono differenti dagli uomini. Parlano troppo quando sono in gruppo e questo non è normale. In più, appena finita la tappa, non si riposano come dovrebbero ma affaticano le loro gambe andando a fare shopping

Superfluo dire che uno così ben difficilmente sarebbe potuto diventare l’alfiere del Tour femminile in un mondo a trazione maschile che, se si accostava alla competizione, era per deridere fisicità e prestazioni delle cicliste o, al contrario, per ritrarle in foto ad hoc che le facessero apparire più aderenti allo stereotipo di donna allora in voga. Al successo della britannica Millie Robinson e all’evento sportivo in sé, si interessarono davvero in pochi.

La seconda prima volta si ebbe lo stesso anno in cui, ai Giochi di Los Angeles, le cicliste conquistarono la possibilità di contendersi un oro olimpico3. La XXIII Olimpiade estiva contribuì a cambiare radicalmente l’approccio del CIO verso i “suoi” Giochi, sdoganando l’idea che, se si apriva a massicci interventi da parte di sponsor privati, la grande kermesse sportiva alla lunga avrebbe tratto tanti benefici dalla naturale tendenza degli stessi investitori a cercare fette di mercato di riferimento sempre più ampie e variegate. Una sorta di “democratizzazione” sportiva a scopo di lucro.
Magari è solo una coincidenza, ma trovo significativo che proprio nel 1984 il direttore del Tour de France maschile, Jean Marie Leblanc, decise di tentare la carta di un Tour femminile, affiancando alla tappa degli uomini una mini-tappa delle donne4. Significativo, in primo luogo, perché dall’operazione traspariva la volontà di aprire anche alle cicliste e consentir loro di sentirsi parte di ciò che il Tour rappresentava per i francesi e per il mondo intero (sentirsi parte di un brand, diremmo oggi). In secondo luogo, perché Leblanc addusse motivazioni di carattere finanziario quando nel 1989 comunicò che l’esperimento era fallito e che il format sarebbe radicalmente cambiato. Evidentemente la corsa non aveva dato il ritorno economico sperato. 

Quanto alla competizione sportiva, stavolta, le cose andarono meglio: dal 1985 al 1989 Maria Canins e Jeannie Longo monopolizzarono la lotta per la maglia gialla e, almeno al di qua e al di là delle Alpi, gli appassionati di ciclismo impararono a conoscere i loro nomi, anche perché le due riproponevano al femminile una sfida ciclistica dal sapore storico, quella tra Italia e Francia. Una sfida condotta, però, al buio, perché di copertura televisiva neanche a parlarne, anche se in fondo ogni giorno le donne correvano su una parte di percorso fatto dagli uomini. E, con il senno di poi, questo fu probabilmente un bug che contribuì a condannare l’esperimento di Leblanc.

Quello che successe nei primi anni Novanta è un po’ confuso. Da un lato, il patron del Tour provò a metter su un Tour de la CEE femminile. Erano i tempi in cui Cristina d’Avena cantava «Europa unita, un sogno che diventa realtà» e allora perché non dividere tra le nazioni della Comunità Europea l’incombenza di organizzare la corsa ciclistica? Questo nuovo format resistette poco, quattro edizioni, dal 1990 al 1993, disputate sempre nel mese di settembre sulla distanza di 8-10 tappe, poi naufragò. Con la “soddisfazione” di aver anticipato quanto Leblanc avrebbe proposto in occasione del Tour maschile del 1992, ovvero una Grande Boucle che smarginava in Spagna, Olanda, Belgio, Lussemburgo e Italia.  

Joane Somarriba in maglia gialla. La basca ha vinto tre Grande Boucle (2000, 2001 e 2003)

Accanto a questo “Giro della CEE”, proprio nel 1992, Anne e Pierre Bouet diedero vita in modo indipendente al Tour cycliste féminine. Una nuova partenza, la quarta. I Bouet erano a capo di un’associazione sportiva femminile (Vélo féminine), affiliata alla Federazione ciclistica francese, ma non avevano alcun legame con gli organizzatori della gara maschile. Per questo la Amaury Sport Organisation (ASO), espressione della Amaury Editions, che dal 1965 è l’unica proprietaria del brand Tour, intentò una serie di processi che obbligarono nel 1996 a un cambio di denominazione. Stavolta si puntò sul soprannome storico della corsa a tappe francese e dal Tour cycliste féminine si passò a La Grande Boucle internationale féminine.
Incredibilmente, viste le premesse e i continui ostacoli posti dalla ASO, furono condotte in porto diciassette edizioni tra il 1992 e il 2009. Poi, arrivò il definitivo stop. Dal punto di vista sportivo, le cose andarono in modo simile al periodo Leblanc. La competizione seppe far conoscere cicliste come Leontien Van Moorsel e Fabiana Luperini, Joane Somarriba e Nicole Cooke, ma la vera differenza la faceva tutto il contorno, anche perché l’organizzazione non poteva contare su fondi paragonabili a quelli del Tour maschile. Scriveva cyclingnews nell’agosto 2003:

Per molti anni, […] Pierre Boué ha ricevuto lamentele dalle concorrenti e dai direttori delle squadre per gli alloggi non all’altezza, trasferimenti eccessivamente lunghi […], lunghe tappe e premi in denaro non corrisposti. Ogni anno egli ha insistito che le condizioni sarebbero cambiate e piano piano, secondo alcune concorrenti, le cose stavano andando meglio. Però, i premi dello scorso anno [2002] non sono stati pagati. Quest’anno, al termine della seconda tappa in Corsica, le concorrenti sono state caricate su un traghetto […] e non hanno raggiunto l’hotel prima delle 3 di notte, [e il giorno dopo avevano] la tappa più dura del Tour5.

E veniamo alla fine della storia, che poi è l’ennesimo nuovo inizio. O forse la sintesi. Il capitolo Bouet-Vélo féminine lasciava in eredità la sensazione di una grande sconfitta, perché, senza concessioni o intercessioni da parte di chi organizzava il Tour maschile, un vero Tour femminile non ci sarebbe mai più stato. Il capitolo Leblanc, d’altra parte, ammoniva l’ASO o chi per loro a fare passi in tal senso solo in caso di un ritorno certo in termini finanziari. Serviva il trait d’union, che è stato in un certo senso rappresentato dall’UCI o, se vogliamo, dall’invito fatto dal CIO alle singole federazioni internazionali a perseguire una politica più inclusiva rispetto al genere, anche per questioni di immagine.
In sostanza, senza un inquadramento più certo e la garanzia della partecipazione di squadre di alto livello che fornisce l’UCI Women’s World Tour, l’ASO avrebbe difficilmente posto le basi per il Tour de France Femmes che vedrà la sua prima edizione nel 20226. Il resto, ancor prima delle atlete, lo dovrebbe fare lo scenario. Perché, invece, di partire da Cagliari, toccare Olbia, Bergamo e finire a Padova come fa quest’anno il Giro Donne, il Tour femminile 2022 assegnerà la prima maglia gialla sugli Champs-Elysées lo stesso giorno in cui termina la gara maschile. E non è la stessa cosa.

Nell’immagine in evidenza: Maria Canins in maglia gialla al termine del Tour del 1985. Jeannie Longo, in maglia verde, è la prima da destra (foto Equipe)