Pasadena. All’una di pomeriggio, davanti a novantamila spettatori, in un Rosebowl gremito va in scena una finale mondiale deludente. Un salvataggio sulla linea e poco altro in 120′ di gioco. Ai rigori, però, le emozioni non mancheranno. No, non vogliamo riportare alla mente le delusioni di quella sera del luglio 1994 in cui il Brasile divenne tetracampeão ai danni degli azzurri. Il Mondiale in questione è quello femminile del 1999, il match è Stati Uniti-Cina, che incollò 18 milioni di americani e americane davanti alla tv e si chiuse con un’immagine divenuta subito pop: Brandi Chastain, segnato il penalty vincente, si tolse la maglia e si inginocchiò, mostrandosi al pubblico in reggiseno nero tipo beach volley. Quel giorno la FIFA capì definitivamente quale potenziale avesse il movimento femminile, anche in termini di nuovi mercati da consacrare al calcio. 

Morale, è un errore pensare che la popolarità per il football donne sia arrivata solo con Francia 2019. Anzi, tale percezione è indice di quanto l’Italia, pioniera del settore nei primi anni Settanta e ancora in grado nel 1997 di arrivare in finale agli Europei, abbia fatto finta che il movimento femminile non esistesse, proprio nel momento in cui esso entrava in una nuova dimensione globale. La frase «Non si può sempre parlare di dare soldi a queste quattro lesbiche», detta nel 2015 con ogni probabilità da Belloli, allora presidente della Lega Nazionale Dilettanti e, come tale, deputato all’organizzazione dei campionati femminili, è paradigmatica.

È stata, però, la concomitanza di due avvenimenti a far sì che nel giugno 2019 persino la Rai si interessasse alle gesta della Nazionale di Milena Bertolini. Da un lato, la qualificazione delle azzurre a un Mondiale, come non avveniva da venti anni, ha fatto da ideale contraltare al rospo ingoiato a fine 2017 con l’eliminazione dei maschi dal Mondiale di Russia, come non avveniva da sessant’anni, e ha in parte coperto quel quadriennale bisogno di narrare un’Italia calcistica che sogna la Coppa del Mondo. Dall’altro, col recente sbarco nella A femminile dei grandi club maschili è aumentato l’appeal mediatico del campionato, i cui diritti, sono ora di Sky; uno sbarco non volontario, perché imposto alla FIGC da FIFA e UEFA che guardano al mercato del calcio femminile già da un po’ e pretendono che qualunque club prof maschile abbia una controparte women, cosa che, ad esempio, ha portato l’Olympique Lione femminile a dominare in Europa. 

Questa politica di investimenti voluta dall’alto, che -non ci facciamo illusioni- seguirà quella logica di sviluppo che ha contraddistinto gli ultimi trenta anni di calcio maschile, ha, però, almeno al momento, una prospettiva. Pensiamo al gioco di squadra messo in mostra dalla Nazionale italiana al Mondiale, al senso di gruppo trasmesso da ogni parola detta dalla Bertolini o dalle giocatrici, all’accento sempre posto dalle intervistate sull’importanza di poter praticare tutti gli sport senza limitazioni o discriminazioni dovute al genere e avallate da pregiudizi atavici.
Pensiamo poi alla capitana, Sara Gama, padre congolese, madre italiana, laureata in lingue, e alla lettera letta al Presidente Mattarella a fine Mondiale e contenente l’invito a curare e far crescere quell’embrione dalle «potenzialità enormi» messo lì da lei e dalle sue compagne di avventura. Il portato culturale e sociale di queste calciatrici è di tutt’altro livello rispetto a quello dei colleghi maschi e non perché questi siano “ignoranti”, ma perché il calcio maschile è gioco di Stato dai tempi del fascismo. Per questo crediamo che qualsiasi lotta esse porteranno avanti, dal professionismo alla parità di salario, dalla necessità di essere rappresentate nel governo dello sport e del calcio a future ipotetiche discese nel campo della politica, avrà una ricaduta positiva. E basta volgere lo sguardo oltreoceano, a Megan Rapinoe e alle sue compagne, laureatesi campionesse del mondo per l’ennesima volta, per capire cosa intendiamo. 

Da Chiaroscuro n° 54, settembre 2019