Palla, volano e pié zoppo; sussi, birilli piccoli e buchette; cerchio, piastrelle, tocca-ferro, tutti fermi e chi tardi arriva male alloggia. Ci sono persino cerbottana, mosca cieca e quattro cantoni nel surreale elenco di “giuochi” che il Bollettino Ufficiale della Pubblica Istruzione del 30 novembre 1893 suggeriva per le elementari. Ma era una piccola conquista, perché per la prima volta un programma ministeriale lasciava spazio a qualcosa di diverso dagli esercizi ginnici e, per di più, non faceva distinzione tra ginnastica per bambini e ginnastica per bambine. 

Tutto era cominciato (almeno) sessanta anni prima, quando l’allora re di Sardegna Carlo Alberto aveva affidato al ventenne svizzero Rudolf Obermann l’incarico di maestro della Scuola Militare Ginnastica di Artiglieria di Torino. Egli proponeva un approccio all’attività fisica tutto basato su attrezzi come sbarra e cavallo con maniglie, che servivano a potenziare i muscoli e la percezione altrui della propria virilità. Se a questo si aggiungeva tiro a bersaglio e scherma, ecco pronto il ginnasta-soldato funzionale alla politica di unificazione e, al tempo stesso, di conquista che i Savoia di lì a qualche anno iniziarono a perseguire nella pensiola italiana. Così, quando nel 1862 l’insegnamento dell’educazione fisica venne introdotto nei licei maschili dell’appena nato Regno d’Italia, vi entrarono anche armi e baionette…

Una volta fatta l’Italia, bisognava fare gli italiani, ebbe a dire Massimo d’Azeglio, e, seppur con diversa prospettiva, le italiane, aggiungiamo noi. Con l’idea che gli esercizi ginnici potessero servire a migliorare lo stato generale di salute dei singoli e, quindi, dell’intera nazione, nel 1877 venne approvata la legge De Sanctis: educazione fisica obbligatoria in ogni scuola di ordine e grado. Peccato che mancassero le palestre e i maestri si dovevano arrangiare con la ginnastica tra i banchi brevettata da Emilio Baumann. La legge parlava anche di educazione fisica al femminile, ma -attenzione- chiedeva alle insegnanti di rispettare semplicità e grazia, pregi distintivi della donna, e di evitare tutto ciò che potesse assumere una dimensione spettacolare o atletica. 

Arriviamo così al punto da cui siamo partiti, la riforma del 1893, voluta fortemente dal fisiologo, nonché docente all’Università di Torino Angelo Mosso. Questi nel presentare le innovazioni, leggi spazio ai “giuochi en plein air”, come si soleva dire allora, e ricerca di una maggiore parità tra maschile e femminile in fatto di attività proposte a scuola, spiegava come l’educazione fisica femminile non dovesse avere nulla di coreografico e, senza nuocere alla bellezza e alla grazia, dovesse infondere robustezza e preparare al ruolo di educatrici e madri.

Perché, Obermann o Baumann, mosca cieca o pié zoppo, era quello il loro fine ultimo, nonché unico. Il maschio e i suoi bisogni rimanevano centrali.

Fonti: S. Giuntini, La Rivoluzione del corpo, Aracne, 2019

Da Chiaroscuro n° 55, dicembre 2019