Il Mondiale femminile di Francia 2019 fra sessismo, omofobia, baci e coming out – SECONDA PARTE, Qui la PRIMA PARTE

Dipende dal luogo

Se è vero che è in atto una tendenza globale per cui sportive e sportivi omosessuali «sono sempre più coinvolti/e in contesti inclusivi e dichiarano il proprio orientamento sessuale sperimentando pratiche di accoglienza e supporto», quando arriviamo al calcio femminile dobbiamo fare delle precisazioni geografiche: si riscontrano velocità assai differenti, perché le calciatrici devono fronteggiare pregiudizi che hanno diverse potenze di fuoco se vivono in Italia, negli Stati Uniti o nel continente africano1.

Partiamo dai paesi che possiamo definire “aperti” (I): in questo gruppo vanno annoverati sicuramente i paesi scandinavi, gli Stati Uniti di Abby Wambach2 e Megan Rapinoe, e il vicino Canada; a ruota seguono nazioni recentemente entrate nel club, quali il Regno Unito, la Germania e la Spagna post-zapateriana. In questi paesi non vi sono pregiudizi di sorta (o comunque non sono più mainstream e rimangono confinati entro le mura di minoranze conservatrici), e le calciatrici si sentono libere di fare coming out in merito al loro orientamento sessuale; le società sportive in cui militano sono spesso dalla loro parte e si impegnano esplicitamente in campagne LGBT. Nel gruppo dei paesi “prudenti” (II) possiamo invece mettere l’Italia: qui i pregiudizi omofobici sono ancora vivi, anche se lentamente in via di messa in discussione; muovendosi in tale contesto, le calciatrici omosessuali normalmente mantengono un atteggiamento assai prudente, nascondendo il loro orientamento sessuale (persino dopo il ritiro dall’attività agonistica), oppure rivelandolo dopo qualche tempo, e comunque senza eccessivi clamori. Nel gruppo dei paesi “chiusi” (III) possiamo, infine, annoverare realtà extra-europee, in cui i pregiudizi omofobici sono a tal punto forti che le calciatrici che si dichiarano lesbiche vanno incontro ad episodi di intolleranza, anche molto gravi. Esemplare il tragico caso occorso nell’aprile del 2008 in Sudafrica alla 31enne centrocampista della Nazionale Eudy Simelane, violentata e poi uccisa da un gruppo di uomini, intenzionati a compiere un vero e proprio stupro collettivo di gruppo contro la ragazza, che aveva fatto coming out ed era una nota attivista LGBT3.

L’ipocrisia del women’s soccer statunitense

Nonostante quanto appena affermato circa l’atteggiamento open-minded della società statunitense in relazione a una eventuale omosessualità delle calciatrici (atteggiamento derivante anche dalla caratterizzazione “rosa” dello sport negli USA), è doveroso richiamare le incendiarie critiche mosse dalla storica del calcio Rachel Allison all’ipocrisia sottesa alla rappresentazione delle giocatrici e delle tifose da parte della Women’s Professional Soccer, durante la sua breve ma significativa esistenza (2007-2012).
I dirigenti della lega professionistica femminile statunitense, alla ricerca di un prodotto sportivo performante, fecero, infatti, delle scelte di mercato ben precise4, individuarono come target le famiglie bianche, privilegiate socialmente, eterosessuali, possibilmente con a carico figli e figlie che giocassero a loro volta a calcio, e provarono a marginalizzare i tifosi maschi e le tifose lesbiche, appartenenti a categorie ritenute devianti rispetto al target individuato5.

Nella rappresentazione delle calciatrici protagoniste della lega, l’accento veniva poi sempre messo su aspetti o valori quali il matrimonio, la maternità, la bellezza fisica, il lato glamour e una buona dose di professionalità, così da mostrare al pubblico quanto le giocatrici della lega fossero dotate di una eterosessualità “appropriata”. Rifacendosi a quest’analisi, Cat Ariail osserva come, nel giro di qualche anno, negli Stati Uniti ci sia stato un grosso cambiamento a riguardo, vedi le co-occorrenze delle Pride Nights e degli incontri della Nazionale femminile (nonché una più generale multiformità razziale dei supporters). D’altra parte, però, la studiosa non tace il fatto che, almeno a livello di tifoseria, queste novità non sono riuscite a cambiare il profilo della tifosa-target, che rimane tuttora la ragazza giovane e bianca dei suburbs, sempre sull’attenti per essere adeguatamente ispirata e resa forte dai propri idoli sportivi al femminile. Non a caso, molte tifose lesbiche si sentono tuttora in dovere di uniformarsi a modelli omo-normativi, tutt’altro che scomparsi.

Lo spogliatoio femminile: un luogo accogliente

Se il calcio femminile è stato riconosciuto dagli studiosi di calcio come un ambiente generalmente capace di fornire alle donne che si dichiarano lesbiche «a relatively safe, shared space»6, sarà interessante provare a descrivere la situazione italiana partendo proprio dal concetto di safe space. Illuminanti in merito le parole dell’ex calciatrice tedesca Tanja Walther-Ahrens, intervistata nel 2011 da Gabriel Kuhn. Messa di fronte alla vulgata secondo cui l’omosessualità all’interno del mondo calcistico femminile è considerata meno un tabù rispetto a quanto accade fra i calciatori maschi, Walther-Ahrens in un primo momento rispondeva positivamente, puntualizzando però subito che ciò era vero soprattutto per la squadra e per il circolo di conoscenti della calciatrice lesbica: è, infatti, all’interno di questi ambienti che la giocatrice può parlare apertamente della propria sessualità, non all’esterno. Lo dimostrava il fatto che, al momento dell’intervista, «non [c’era] una singola giocatrice tedesca della massima serie o in Nazionale che [fosse] apertamente lesbica»7.

Ipotizzando che la situazione dell’Italia sia simile a quella della Germania di una decina di anni fa, le dichiarazioni del 2018 di Antonio Cabrini sembrano confermare il fatto che lo spogliatoio (e non l’esterno) sia avvertito come un safe space per parlare di questi argomenti. L’ex campione del mondo, CT della Nazionale femminile italiana dal 2012 al 2017, ricorda infatti che «nei miei quasi cinque anni da c.t. non ho mai avuto problemi di alcun genere. Anzi: ne parli tranquillamente con le giocatrici, senza imbarazzo, per loro è una cosa normale»8. Soprattutto durante l’adolescenza e la giovinezza, lo spogliatoio può essere il luogo ove anche le calciatrici eterosessuali sono messe di fronte, grazie alle proprie compagne di squadra omosessuali, alla diversità degli orientamenti, come raccontato da Barbara Bonansea, la quale ricorda quando, allora giocatrice della Primavera del Torino (2005-2007), individuò dopo un po’ di tempo «un gruppettino di ragazze» presente all’interno dello spogliatoio: «più chiuso, più raccolto, si faceva fatica a entrare e comunicare con loro, forse si proteggevano, forse si difendevano. Erano omosessuali. E allora? Per me quelli erano, e sono, preconcetti, pregiudizi»9.

Nel 2017 uno studio pioneristico di Jessica Pistella e Roberto Baiocco ha provato, attraverso una serie di interviste a calciatori e calciatrici italiane, a indagare il pregiudizio omofobico presente nelle comunità di spogliatoio del Belpaese, giungendo a risultati estremamente interessanti. In primis, poco più della metà delle calciatrici lesbiche dichiarava di aver rivelato il proprio orientamento omosessuale alle compagne di squadra e/o al proprio allenatore, un passo che nessuno dei calciatori gay si era sentito di fare. La differenza non stupisce: i sociologi dello sport infatti hanno da tempo descritto la tendenza globale per la quale nella percezione comune degli ambienti sportivi, «i gay maschi che fanno sport rappresentano una minaccia alla mascolinità e all’eterosessualità, mentre lo stesso discorso non può essere applicato per le atlete lesbiche»10. È l’azzurra Martina Rosucci, in una intervista del 2015, a descrivere così la condizione delle giocatrici omosessuali negli spogliatoi italiani di calcio: «Ce n’è… Ma è vero com’è vero che il calcio maschile è pieno di gay. Solo che gli uomini sono più protetti e meno disposti ad ammetterlo». Un peso, nella differenza, l’avrà anche il fatto che il calcio è uno sport di squadra, giacché molte ricerche dimostrano come tali discipline sportive si mostrino generalmente più inclusive di quelle individuali verso le donne omosessuali. Osservazione, però, non applicabile ai colleghi maschi, come emergente ad esempio dalle dichiarazioni di Claudio Bellucci, giocatore del Bologna finito nell’occhio del ciclone per il bacio “involontario” a Carlo Nervo del 2002 che scatenò un vespaio di polemiche11. Interrogato a distanza di anni, Bellucci ha dichiarato: «Penso che il problema sia proprio lì dentro. Se lo spogliatoio ti accetta, allora è diverso. Ma se non lo fa, è dura per un giocatore omosessuale confessare di esserlo (omosessuale)».
Il secondo dato interessante dello studio di Pistella e Baiocco è il fatto che alcune calciatrici che avevano fatto un coming out “di spogliatoio” non avevano poi fatto altrettanto coi propri genitori: una conferma ulteriore del carattere di safe space rivestito dallo spogliatoio, avvertito comune comunità accogliente di pari e di coetanee, molto più open-minded della coppia genitoriale, inevitabilmente più legata ad immagini tradizionali della sessualità12

Continua…

Nella foto in evidenza: Alex Morgan e Abby Wambach con la maglia della Nazionale USA