L’Italia intera, in questo giugno 2019, sembra finalmente essersi accorta dell’esistenza delle proprie calciatrici. Commentando a caldo, dopo la vittoria per 5-0 sulla Giamaica (con sua tripletta personale!), il nuovo clima d’entusiasmo che sembrava pervadere finalmente il paese, la cannoniera azzurra Cristiana Girelli ha esclamato, con tono dal retrogusto agrodolce: «Noi ci siamo sempre state, ma in Italia la donna deve sempre guadagnarsi rispetto e interesse».

Di sicuro, uno degli elementi che più sta appassionando il grande pubblico è la scoperta di un mondo che, nonostante l’entrata in campo, negli ultimi anni, dei grandi club maschili (Juventus, Milan e Fiorentina in testa), pare ancora vivere unicamente di sudore e di passione, complice anche l’annosa questione del mancato passaggio al professionismo. La passione è certamente al centro dello stupendo spot pubblicitario della RAI dedicato ai Mondiali Femminili di Francia 2019, Il calcio femminile è diventato grande, in cui recitano delle bambine e alcune star della nostra Nazionale (tra le altre, Laura Giuliani, Sara Gama, Elena Linari, Aurora Galli e la già citata Girelli). L’altro ingrediente narrativo dello spot – ed è un riconoscimento doveroso alla storia del calcio femminile nel nostro paese – è la lotta contro il pregiudizio nazionale secondo cui «il calcio non è un giuoco per signorine»: nella prima parte, infatti, le bambine devono lottare – innanzitutto contro le loro stesse paure, poi contro i coetanei maschi – per conquistare il diritto di calciare quel pallone nelle strade e nelle piazzette del Belpaese.

C’è poi un ulteriore elemento di continuità storica, ossia il ruolo giocato (quasi sempre positivamente) dalla famiglia – genitori in primis – nella possibilità stessa di praticare lo sport tanto desiderato. Si tratta di un elemento tanto sottolineato dalle dirette interessate, quanto generalmente passato sotto silenzio o comunque minimizzato dalla narrazione mainstream, convinta forse che si tratti di qualcosa di essenzialmente sentimentale, che “non paga” in tempi in cui bisogna per forza mostrare il lato combattivo e selfish delle azzurre, soffermandosi ad esempio – come ha puntualmente fatto il canale youtube della FIFA, con apposito video – sull’epico aneddoto che vede una piccolissima Valentina Giacinti decapitare le bambole ricevute in regalo, per poi prenderne a calci le malcapitate teste1. Eppure, il ruolo giocato dalla famiglia sulla pratica sportiva delle figlie è da sempre una caratteristica strutturale della nostra società, e percorre come un fiume carsico tutta quanta la storia dello sport femminile in Italia.

Essendomi di recente occupato di tale argomento, a proposito delle sportive degli anni Trenta, nell’articolo Aspettarsi meraviglie dalla propria piccola Trebisonda. Il ruolo della famiglia nella pratica sportiva femminile del Ventennio, che uscirà a breve nell’imminente numero della rivista accademica statunitense Carte Italiane, vorrei proporre ai lettori di Calcio Romantico una serie di ritorni e, ovviamente, anche di differenze nelle vicende delle attuali calciatrici azzurre, raccontate in Quelle che … il calcio. Le ragazze del Mondiale (Aliberti, 2019), libro scritto a quattro mani dall’attuale CT della nazionale, Milena Bertolini, e da Domenico Savino.
Quelle che … il calcio non è una storia del calcio femminile (argomento su cui, a livello divulgativo, rimane insuperato come prodotto editoriale Campionesse. Storie vincenti del calcio femminile, del duo Gasparri – Uva, Giunti, 2018), né punta sulle rivendicazioni sociali delle sportive, come faceva il pungente libretto anonimo curato dalla stessa Bertolini, Giocare con le tette (Aliberti, 2015); è piuttosto una raccolta di storie personali, quelle delle calciatrici azzurre, intendendo con questo termine quelle poi convocate per la Francia, quele escluse dalla lista finale e, in più, qualche “ospite”, vedi il Segretario generale della Nazionale, Elide Martini, salita alla ribalta per le sue lacrime in diretta sulla panchina azzurra la sera della qualificazione mondiale.

Come ripetuto anche a voce dalla Bertolini stessa alla presentazione nazionale del libro, «il dato forse più significativo delle storie di queste ragazze è che in un modo o in un altro tutte debbono il coronamento del proprio sogno alle famiglie di origine, a un padre o una madre o a entrambi che hanno voluto lasciare che esse eseguissero il proprio cammino […]. È a questi genitori, questi piccoli eroi del quotidiano, che questo libro vuol essere dedicato»2.
Il fatto che in questi ultimi decenni le donne italiane stiano finalmente conquistando il diritto di giocare a calcio va però messo a sistema con le storie parallele delle loro colleghe provenienti dalle altre discipline, che durante il Ventennio fascista o nel Secondo Dopoguerra hanno vinto la loro battaglia forti dell’appoggio familiare. In caso contrario, si rischia non solo di non cogliere le difficoltà specifiche che queste coraggiose sportive italiane hanno dovuto affrontare, rispetto a tante loro colleghe calciatrici straniere3, ma anche di passare sotto silenzio le compagne di squadra che non ce l’hanno fatta, chi per motivi sociali (vedi la già citata impossibilità giuridica e soprattutto economica dello status di professioniste4), chi proprio a causa dell’opposizione familiare.
Così facendo, le attuali calciatrici azzurre potranno non solo finire sull’album Panini (dove, per altro, stavano da anni), ma pure entrare a pieno titolo storiografico in una più ampia comunità, quella che da più di cento anni lotta, nel nostro paese, per affermare un diritto femminile spesso dimenticato dai più, ossia quello di praticare lo sport preferito. In quest’ottica, andrebbero riscoperti i piccoli tesori contenuti in due libri di testimonianze di sportive usciti qualche anno fa, ossia Storie di sport, storie di donne, a cura di Giovanni Malagò e Nicoletta Melone (Rizzoli, 2012), e soprattutto quello curato da Cristina Falco, Più brave per forza. Storie di donne e sport dal Novecento a oggi (Edizioni SEB27, 2015)5.

Tornando alle azzurre, gli inizi risultano essere stati molto differenti, spesso casuali e/o rocamboleschi. Il primo battesimo rimane quello abituale, che va dalla strada dove si fa le ossa Rosalia Pipitone, dal cortile (come raccontato da Barbara Bonansea in Ragazze Mondiali, assieme a fratello e cugina) al parco della fiorentina Elena Linari, fino al campetto sotto casa dove la seienne Manuela Giugliano segue il fratello e i suoi amici maschi.6
In molti casi è invece un padre calciatore7 a trascinarsi dietro la figlioletta, come capita a Daniela Sabatino che, ancora bambina, durante l’intervallo fra primo e secondo tempo della partita domenicale della squadra in cui militavano padre e cugino, fa «irruzione sul campo, […], divertendosi e intrattenendo gli spettatori», vista la sua «monomania ossessiva» per il pallone. O a una Laura Fusetti esposta sin da bambina al calcio, visto che il padre se la portava dietro durante gli incontri della propria squadra amatoriale: «Durante il riscaldamento, prima dell’inizio della partita, i compagni di squadra [del padre] le facevano dare due calci al pallone, e poi lei si inchiodava alla recinzione del campo per tutta la partita. A furia di stare lì, a chi non verrebbe la voglia di entrare e mettersi a giocare insieme agli altri?»
In altri casi, le bambine si ritrovano sul campo dei maschi perché in quota “accompagnatrici” dei fratelli8. È l’ormai celebre caso di Barbara Bonansea, la quale, «con la sua fronte alta e gli occhioni sgranati, guarda da dietro la rete» gli allenamenti dei pulcini del Bricherasio, fino a che «a un tratto l’allenatore s’intenerisce e le dice: “Dai, prova anche tu”»9, ma pure quello di Valentina Bergamaschi, da Cittiglio, che ha iniziato «seguendo il fratellino che doveva giocare una partita. Ma quel giorno mancava uno dei ragazzini e lei, che fino ad allora aveva giocato solo all’oratorio, lo sostituì».
L’accenno all’oratorio è significativo, perché molte confessano di aver trovato in questo ambiente un luogo accogliente, argomento che andrebbe storiograficamente approfondito (ad es. con una storia delle politiche interne del CSI), visti i pessimi inizi del rapporto fra mondo cattolico e calcio femminile. Anche Laura Giuliani confessa di aver iniziato a giocare a sette anni all’oratorio, «perché all’Oratorio – si sa – devono giocare tutti, anche quelli scarsi. E siccome – confessa – lei era un po’ scarsa, gli altri amici non la volevano». La centrocampista Aurora Galli si è fatta le ossa nel campetto a cinque della parrocchia di Tromello (PV), dove «i piccoli amici la chiamavano sempre a giocare con loro, perché lei è una che si fa amare», mentre il padre di Laura Fusetti, accortosi della passione della figlia, «si recò dal responsabile della squadra dell’oratorio di Rescaldina, la Carcor, chiedendogli di mettere Laura alla prova: aveva poco più di sette anni e ci rimase sino all’età di tredici».

Dopo il racconto di come si è iniziato, in quasi tutti i capitoli di Quelle che … il calcio c’è il momento dedicato alla discussione in casa e, quindi, all’attesa per la decisione della famiglia
Partiamo dalla n. 1 della Nazionale, Laura Giuliani. La bambina – che, come abbiamo visto, aveva tirato i primi calci all’oratorio, anche se non aveva ancora scoperto la sua vocazione da portiera -, sapendosi in posizione di inferiorità, tenta di giocare di furbizia. Così un giorno, mentre col papà sta accompagnando la sorella più grande a scuola, alla vista del campo sportivo gli chiede: «Per te sarebbe un problema se io andassi a giocare a calcio?», ricevendone la risposta «Per me assolutamente no, ma non dobbiamo dirlo alla mamma»10. I dubbi si rivelano infondati, perché «l’opposizione materna era inesistente, derubricabile a “preferenza per tipologia di sport solitamente più praticate dalle bambine”. Ma come tutte le mamme, purché Laura fosse felice, si arrese subito all’idea di avere una bambina che voleva giocare a calcio»11.
La differenza di atteggiamento fra papà e mamma Giuliani non deve stupire: essa è riconoscibile come tendenza già nelle coppie genitoriali degli anni Trenta, in cui di solito era il padre (ad esempio, quello di Ondina Valla, la star dello sport femminile italiano dell’epoca) a vedere con simpatia il desiderio della figlia di praticare sport. Ma nel caso delle azzurre attuali, la tendenza diventa quasi una regola: di padri che si oppongano veramente non c’è traccia, al massimo prendono un po’ di tempo come quello di Laura, e spesso non per paura che la figlia diventi un maschiaccio, quanto per il timore dell’impegno richiesto. Così, ad esempio, il papà di Elide Martini (calciatrice – lo si ricordi – degli anni Settanta) si mostrò all’inizio contrario, perché «Elide doveva studiare, non doveva distrarsi; ma poi, come spesso accade, l’austero genitore si lasciò convincere dalla moglie e sarà proprio quel militare dell’Aeronautica tutto d’un pezzo a diventare il suo primo tifoso, orgogliosissimo di quell’unica figlia femmina che era diventata una campionessa»12.
Al contrario, sono quasi sempre le mamme a cercare, se non proprio di ostacolare, almeno di “re-indirizzare” le figlie che hanno preso la cotta per lo sport sbagliato, troppo poco femminile, a loro parere, mostrandosi così esse stesse involontarie guardiane domestiche di un codice non scritto13 che ha percorso e percorre una società ancora profondamente patriarcale come quella italiana14. Così, ad esempio, se il primo tifoso della romana Elisa Bartoli è «il padre Stefano, sessant’anni, ex calciatore, arrivato fino in Promozione, “una vita da mediano”, […], orgogliosissimo di lei», che le dice «Sei riuscita nella vita a fare quello che io sono riuscito solo a desiderare», è differente l’atteggiamento della madre: «la mamma anche mi ha voluto bene, ma non si è convinta subito del fatto che le era toccato avere una figlia calciatrice, anche se adesso è orgogliosissima». Molte genitrici non si limitano però alla pura perplessità, e provano (senza successo) a far praticare alle proprie figlie altri sport, come capita a Martina Rosucci, o ancora a Eleonora Goldoni, la cui madre, «avendo fatto la ballerina, avrebbe voluto indirizzare Eleonora verso la danza classica». A Gemona del Friuli, invece, la madre di Ilaria Mauro ha un’altra idea: se sport di squadra sia, che sia almeno femminile: «A sei anni la mamma la manda a fare pallavolo per circa un anno e mezzo, ma tutte le volte che arrivava la palla, lei giocava coi piedi. A un certo punto l’allenatore si stanca e spazientito le dice: “Ve’, Ilaria, se proprio vuoi giocare a calcio, più in là, di fuori, c’è un campo”»15.
La storia migliore è però senza dubbio quella che coinvolge Lisa Boattin, cresciuta in un piccolo paesino in provincia di Venezia, San Stino di Livenza. Sin da piccola la bambina deve combattere contro i progetti della madre Alessandra, intenzionata a «indirizzarla verso discipline tradizionalmente più femminili, quali la ginnastica artistica. Ma quando si è trattato di fare il saggio finale con tanto di “abbigliamento di ordinanza”, il rifiuto è stato categorico: “Il tutù, no!”». In questo caso, viene data la parola alla genitrice imputata: «Lisa a sei anni è andata a nuoto, ma voleva giocare a calcio … e noi genitori, un po’ scettici su questa scelta, abbiamo insistito che facesse un’altra cosa, più adatta alle femmine: ginnastica artistica … ma lei voleva giocare a calcio! Allora dopo tante discussioni abbiamo ceduto alla sua richiesta e ha cominciato a giocare con i maschi della squadra del nostro paese. La nostra speranza era che si stancasse, invece ha continuato e, vedendo che con l’avanzare dell’età diventava sempre più brava, abbiamo iniziato ad appoggiarla in tutto e per tutto!».
In certi casi, come in quello della livornese Sandy Iannella, è addirittura la nonna ad intervenire, per risolvere il dramma familiare e sportivo della nipotina. La madre di Sandy voleva che la figlia facesse nuoto, o danza classica: «Pare però che Sandy non fosse felice e che manifestasse una certa vivacità, un certo bisogno di muoversi, un certo bisogno di correre, un certo bisogno di scalciare. Di fronte all’irrequietezza della bambina i genitori aggrottavano le sopracciglia cercando di capire. Fu la saggezza di nonna Lina a interrompere quell’atmosfera di dubbio angoscioso: “Ma non lo vedete che la bambina ha bisogno di altro?”. Prese per mano la bambina e si incamminò verso la sede del Pontino»16.

Linda Tucceri Cimini

Una delle grandi novità, rispetto ai primi tempi del calcio italiano, è la possibilità per le bambine e poi per le ragazzine, di giocare, fino a 14 anni, a fianco dei loro coetanei in squadre miste. Cosa non da poco, non solo dal punto di vista del gioco (Cristiana Girelli dixit: «anche oggi, alle mamme che me lo chiedono, consiglio sempre di far giocare le figlie coi maschi, perché è lì che si fanno le ossa»), ma anche da quello sociologico. Nel 1933, al momento della sua nascita in quel di Milano, ma anche nei decenni successivi, nelle sue varie e spesso fallimentari rinascite, il calcio femminile italiano è sempre stato legato a società quasi sempre dislocate in grandi centri cittadini. Anche quando poi tali società sono spuntate in centri minori (basti pensare al caso storico di Trani, e poi, negli anni più recenti, Sassari, Mozzanica, Tavagnacco), rimaneva insoluto il problema: quante possibili calciatrici hanno dovuto rinunciare al proprio sogno causa la mancanza di una squadra femminile vicino casa?
La possibilità delle squadre miste spiega così una delle grandi novità del calcio femminile attuale rispetto allo sport femminile delle origini, tutto quanto praticato gioco-forza da ragazze abitanti nei grandi centri industriali del Nord Italia: le azzurre attuali provengono non solo da tutta quanta la Penisola, ma soprattutto da centri spesso minuscoli, dove le locali squadre giovanili accettavano fra le loro fila anche le bambine17. Fra i casi più notevoli, la già citata Aurora Galli, proveniente da Tromello, paesino di 3.800 anime nella Lomellina, o Alice Parisi, di Marazzone del Bleggio (TN): «quanto al calcio femminile, nelle valli (o almeno nelle Giudicarie) quasi neanche a parlarne, sicché Alice fino a quattordici anni ha giocato nelle squadre miste, unica donna tra dieci maschi». L’oscar di categoria spetta però senz’altro a Linda Tucceri Cimini, la quale «ha iniziato calciando il pallone per strada, a Cerchio, il paesino vicino ad Avezzano dove vive, 1550 anime tra le montagne d’Abruzzo. Giocava con i fratelli, unica femmina a contendere fin da piccola la notorietà calcistica con i – fin qui – più celebrati fratelli Ciofani, che giocano nel Frosinone. Gli anziani, seduti al bar, intenti a sorseggiare un caffè, vedendo la bambina calciare la palla come i maschi, si guardavano sgomenti: “Addò è uscita chesta?”, commentavano. “Da dove è uscita, questa?”. Un brivido deve averli presi, come se qualcosa di assolutamente inaspettato si fosse improvvisamente manifestato davanti a loro».

La possibilità del calcio misto, per quanto formativa, ha però una data di scadenza ben fissata: passati i 14 anni le ragazze devono passare a squadre unicamente femminili.
E sono proprio tali forche caudine a fornire l’occasione del rientro in scena dei genitori. In primis, infatti, abbiamo chi deve risolvere il problema delle distanze abissali da coprire per le calciatrici abitanti in piccoli centri. Si tratta delle epiche figure dei padri “taxisti”, su cui risalta quella del genitore di Linda Tucceri Cimini, che per accompagnare la figlia da Avezzano agli allenamenti della Lazio si faceva 117 chilometri all’andata, e 117 al ritorno, tre volte alla settimana, per 6 anni. Facendo i calcoli, «vuol dire che questo signore per far felice la figlia che voleva giocare a pallone si è fatto tre volte e mezzo circa il giro del globo»18.
C’è però occasione di riscatto anche per le tanto bistrattate madri, nel frattempo ammansite dalle prime imprese delle figlie coi tacchetti, le quali sono chiamate a cercare di entrare in dialogo, da donna a donna, con le figlie adolescenti, preda di un dilemma per alcune veramente drammatico. Così, se Sandy Iannella, come molte coetanee, «non aveva alcuna voglia di lasciare gli amici e il calcio giocato anche con i ragazzi, ma anche lei, come altre, alla fine si convinse», altre sono più testarde. La quattordicenne Martina Rosucci, raggiunto il limite dei 14 anni, «di giocare a calcio solo con le femmine non ne vuole sapere. Anche lei, come alcune compagne, piuttosto decide di smettere». Come lei, tentenna anche Cristiana Girelli, abituata sin dall’esordio a 6 anni a giocare in squadre miste, in cui si trovava per altro assai bene («Non avevo proprio nessun complesso di inferiorità, e poi facevo gol!»), tanto da ottenere, unica donna con dieci compagni maschi, la fascia di capitano delle giovanili del Nuvolera, campionato Eccellenza. I 14 anni, però, arrivano anche per Cristiana, che, pur volendo continuare a giocare coi maschi, viene notata ad un torneo estivo da quelli «del Bardolino Verona, a quei tempi certo tra le più forti squadre del campionato femminile. Le propongono di passare con loro, ma lei non ne vuole sapere. È la madre a dirle che se vuole fare la calciatrice, quello era il momento di decidersi, perché il calcio misto non esiste. Ma lei inizialmente non vuole, perché piuttosto che giocare solo con le femmine era intenzionata a smetterla con il calcio». Il consiglio della madre la aiuterà a optare per la scelta giusta, quella che ha consegnato alla nostra Nazionale femminile l’autrice della tripletta contro la Giamaica, nel secondo match del Mondiale 2019.

Federica D’Astolfo, coach del Sassuolo

Un ultimo accenno a un altro tema di scottante attualità, che Quelle che … il calcio tocca più volte: il bullismo, per il quale si avverte l’ennesima novità della nuova generazione di calciatrici (anche se quattro esempi sono forse troppo pochi per trarre conclusioni generali). Una calciatrice della scorsa generazione come Federica D’Astolfo ricorda «ancora con dolore quelle frasi troppo spesso udite e per fortuna mai ascoltate, di alcuni adulti che mi “consigliavano” senza mezzi termini di andare a fare qualcosa di più femminile, come andare a lavare i piatti. I miei amici rispondevano immediatamente con frasi irripetibili».
Le nuove azzurre, al contrario, non hanno bisogno di nessuno che prenda le proprie difese: i campi improvvisati o quelli ufficiali del calcio misto in cui la maggior parte di loro è stata svezzata sono stati la loro palestra di vita, in cui la parità e il rispetto da parte dei coetanei è stata conquistata a suon di prestazioni sportive superiori. Tornando, ad esempio a Laura Giuliani: «Inizialmente, quando ero piccolina, sono stati spesso utilizzati termini come “maschiaccio”, “tu sei una donna, non puoi giocare a calcio”, “sei una femmina, vai a giocare con le femmine!”: erano parole che inizialmente mi facevano molto male. Ma credo che quella sia stata poi la spinta per andare sempre avanti. Quando perdevamo, la colpa era sempre mia! E c’erano i bambini dell’altra squadra che dicevano “Hai visto? Loro una bambina in porta? Oggi vinciamo 10 a 0!”. Quelle sono state le mie partite migliori, naturalmente!».
Il tutto non è sempre condito da evangelici “porgi l’altra guancia”, come raccontato da Barbara Bonansea: «Se le domandi come la trattavano i suoi amici, che giocavano con lei, scherza: “Benissimo, anche perché se mi dicevano qualche cosa, li picchiavo”. In realtà li ricorda con molta tenerezza: “Delle volte mi chiamavano Barbaro, allora io li prendevo per il collo e dicevo: chiedimi scusa”».
Quando invece «da bambina i maschietti con cui giocava» maltrattavano Valentina Giacinti «perché faceva gol», «lei ribatteva piccata: “Vi faccio goal anche se sono femmina!”. E non ha più smesso». Ma l’episodio più significativo in questo senso è quello raccontato dalla friulana Ilaria Mauro, che da bambina è riuscita pure a diventare capitano della sua squadra, l’U.P. Reanese:
«una volta (avrà avuto undici anni) il capitano dell’altra squadra contro cui giocavano non voleva darsi ragione di dover competere con una compagine che avesse nel proprio organico una femmina e per giunta con la fascia di capitano! Ilaria risolse la questione rifilandogli due gol, sicché alla fine al ragazzino non restò che stringerle la mano. Concretezza dei friulani!»

Apparentemente, quest’ultimo tema poco c’entra con quello della famiglia: eppure, la lotta “senza sconti” che le azzurre hanno condotto per combattere pregiudizi di ogni genere (persino in campi in cui i maschi ostili si trovavano non solo a bordo campo, ma spalla a spalla, come nel caso appena ricordato della Mauro) ha sicuramente forgiato una nuova generazione di calciatrici, disponibile ad ascoltare la generazione precedente19, ma ancora più pronta a combattere per i propri diritti di donne e di sportive, cosciente anche delle proprie responsabilità verso le calciatrici più giovani20 per intercettare le quali anche i bistrattati social, se usati sapientemente, si mostrano strumenti utilissimi21.
In una recentissima intervista pubblicata sul canale twitter della Nazionale femminile, Manuela Giugliano ha così risposto alla domanda di un utente: «Tu cosa diresti alle madri che sostengono che il calcio non sia lo sport giusto per una ragazza?» «Io penso che questo sport sia lo sport più bello che esista al mondo, e penso che lo possano praticare sia le donne che gli uomini». Parole che mostrano come una cosa non cambi mai, da una generazione all’altra di azzurre: la passione. La stessa che trasuda dalle parole di una vecchia gloria della Nazionale come Federica D’Astolfo: «La purezza, la spontaneità, la passione, il gioco nella sua essenza più vera, quel senso di libertà e di espressione che ti rimangono addosso e dentro, dando anima a tutto il percorso. Al di là dei risultati … talvolta ho vinto, talvolta ho fallito … questi sono i valori che ho imparato rincorrendo un pallone».

N.B. i virgolettati per cui non è specificata altra fonte sono tratti da M. Bertolini, D. Savino, Quelle che il calcio. Le ragazze del Mondiale, 2019