Le vittorie del Setterosa – prima parte. 

“Settebello” era il soprannome della allora GUF Rari Nantes Napoli, perché, agli inizi degli anni Quaranta del secolo scorso, i pallanuotisti della squadra partenopea erano soliti giocare a scopa nelle trasferte in treno con cui raggiungevano le sedi di gara, al Nord. Il soprannome era stato benaugurante, visti gli scudetti vinti prima che il secondo conflitto mondiale arrivasse in Italia e diventasse guerra di liberazione dal regime fascista.
Quando, all’Olimpiade di Londra del 1948, la prima del Dopoguerra, le cose in vasca per l’Italia cominciarono ad andar bene, tre giocatori della Nazionale e di quel Settebello partenopeo1 proposero all’aedo radiofonico Nicolò Carosio di estendere il soprannome della loro squadra di club alla rappresentativa azzurra. Il celebre radiocronista della RAI, noto per il suo linguaggio immaginifico sin dai tempi dell’EIAR, colse l’occasione al volo; la squadra azzurra vinse l’oro olimpico, il primo della sua storia nella pallanuoto, e diventò per sempre Settebello.

All’epoca, in Italia, l’idea che le donne potessero giocare sul serio a pallanuoto non era neppure contemplata. Dopo l’Olimpiade di Helsinki del 1952, a Camogli, una squadra femminile venne creata, ma non fece proseliti. Così, si dovette attendere il 1971 perché, sulla scia di quanto nuovamente messo su a Camogli, si formassero squadre femminili anche a Sori, Recco, Bogliasco e paesi limitrofi e fosse varato una sorta di campionato del Golfo Paradiso.2 Anche più giù, a Siracusa, c’era del movimento, e, allora, le istituzioni, sentito evidentemente il parere di CONI e Federazione Italiana Nuoto (FIN), che fino a quel momento era rimasta alla finestra, decisero di intervenire… mettendo paletti in nome della volontà di preservare la salute delle donne. Un classico delle società di stampo patriarcale.
Nel mio libro Cinque cerchi di separazione spiego, infatti, come normative di carattere medico intervengano sempre in seconda battutta, in qualità di secondo “cerchio”, quando le donne iniziano a praticare per diletto uno sport fino a quel momento appannaggio esclusivo degli uomini. Queste normative le mettono in guardia dai pericoli che l’attività sportiva possa arrecare alla loro salute o, meglio, alla loro fertilità, perché la loro missione è essere mogli e madri. Che è il primo e principale condizionamento culturale, il primo “cerchio” che separa le donne dall’accesso a qualsiasi attività agonistica.

Nel caso specifico in questione, lo strumento legislativo fu il D.M. del Ministero della sanità del 5 luglio 1975 che «ai fini della disciplina delle modalità di esercizio della tutela della salute di coloro che praticano o intendono praticare attività sportive» indicava, divise per sesso e per sport, le età alle quali si poteva iniziare l’attività agonistica, con quale frequenza andavano fatte le visite mediche e quali esami doveva fare chi voleva gareggiare.
Dalla bella tabella allegata si deduceva che non c’era età giusta per le donne per praticare a livello agonistico alcune discipline/specialità quali calcio, bob, lotta, sollevamento pesi, maratona e pallanuoto

Ora, facendo un parallelo con quanto accadde nel calcio, con la F.I.G.C.F. (Federazione Italiana Giuoco Calcio Femminile) che dopo il 1975 continuò lo stesso a organizzare il suo campionato nazionale non riconosciuto dalla FIGC, si può dedurre che, anche per la pallanuoto italiana al femminile, il suddetto DM, più che generare un divieto assoluto della pratica, certificò il disimpegno da parte dei vertici federali per gli anni a venire e, quindi, determinò un pesante ritardo nello sviluppo: in fondo, in esso si parlava di agonismo e il messaggio era che l’esibizione di ragazze con la calottina, che nuotavano in vasca con un pallone, non era classificabile come sport e non aveva diritto a essere finanziato.

Non a caso, già a partire dal 1978 a Napoli, Roma e, ovviamente, in Liguria erano rispuntate sezioni femminili di club pallanuotistici noti o erano state create società ad hoc. Erano illegali in base al DM del 5 luglio 1975? Boh! Comunque, l’empasse normativo fu in qualche modo risolto dalla Legge 91/1981, che istituì il professionismo sportivo per una ristretta cerchia di atleti di sesso maschile, ma, al contempo, specificò che l’esercizio delle attività sportive non era soggetto a restrizioni in base al sesso.
Nel 1983 il punto di non ritorno: alcune delle società esistenti diedero vita alla Associazione Italiana Pallanuoto Femminile, che organizzò il primo campionato italiano con tanto di gironi eliminatori a carattere geografico (nord, centro e sud) e girone finale a Roma tra il 17 e il 19 giugno. La vittoria andò alla De Landro Napoli, ma non la troverete nell’albo d’oro ufficiale. Lì ci sono solo quelle ottenute dal momento in cui la federazione italiana (FIN) si vide costretta a prendere in carico anche un campionato italiano femminile di pallanuoto.
Era il 1985. La federazione internazionale (FINA) organizzava anche al femminile, da sei anni, la Coppa del Mondo e si apprestava a inserire la pallanuoto femminile nel programma ufficiale del Mondiale in programma l’anno successivo a Madrid. Nei Paesi Bassi un campionato femminile si disputava già dal 1914. Questo, giusto per capire il tempismo con cui la FIN aveva saputo cogliere le istanze di parità di genere provenienti dalla piscina.   

Il 1985 è anche l’anno del primo incontro ufficiale della Nazionale femminile, il 1989 l’anno del primo Europeo, terminato al quarto posto. Quel piazzamento garantirebbe la partecipazione al Mondiale FINA di Perth, in Australia, nel gennaio 1991, ma i vertici del nuoto azzurro decidono che per le pallanuotiste non ne vale la pena spendere soldi e le lasciano a casa.
Per fortuna il Mondiale successivo è a Roma. L’Italia è qualificata di diritto. C’è l’atmosfera giusta, perché il Settebello di Rudić nei due anni precedenti ha riportato la pallanuoto nel cuore del pubblico italiano grazie all’oro olimpico di Barcellona 1992 e alla vittoria dell’Europeo l’anno dopo. C’è anche la RAI, che manda in diretta anche i match delle ragazze e chi le intercetta in tv si affeziona subito, me compreso. Successi indiscutibili mostrando bel gioco, battaglie in vasca vinte grazie a un carattere eccezionale, polemiche per decisioni arbitrali, sconfitta in semifinale senza la nostra migliore e netta vittoria nella finale per il bronzo: c’è addirittura la medaglia per una squadra che dieci anni prima neanche esisteva.

Manca un nickname, qualcosa che le identifichi a pieno, ma al tempo stesso faccia capire che si sta parlando di pallanuoto. La Nazionale maschile è chiamata Settebello, loro sono donne e allora scatta l’idea di utilizzare il solito aggettivo che, giornalisticamente, fa capire che si parla di sport al femminile. Nasce così il Settebello rosa. Poi abbreviato in Setterosa.3 E adesso, finalmente, la rincorsa alla vetta dell’Olimpo può cominciare!

Immagine in evidenza: Articolo da La Stampa, 6/9/1994

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