Che poi, a guardar bene, il ginnasiarca Emilio Baumann era uno “avanti” per i suoi tempi. Per primo, nel 1866, aveva proposto di introdurre la ginnastica in tutte le scuole di ordine e grado del neonato Regno d’Italia. Anche nelle scuole elementari, persino nelle classi femminili.
Al posto di una educazione fisica orientata unicamente all’irrobustimento del fisico e finalizzata all’addestramento militare, egli vedeva molto più di buon occhio esercizi che sviluppassero la capacità di coordinazione dei singoli e delle singole. In particolare, sosteneva che le bambine e le ragazze fossero in grado e, anzi, dovessero svolgere anche esercizi ginnici complessi e non solo coreografici. Tra i banchi di scuola. Già, perché le strutture apposite mancavano (non che ora la situazione sia tanto migliorata) e al povero Baumann non era rimasto altro che brevettare la “ginnastica tra i banchi”.

Era, dunque, avanti per i suoi tempi, Emilio. Eppure, in uno scritto del 1910, Ginnastica e Scienza. La ginnastica italiana e le scienze affini, eccolo meditare su quanto le «convenzioni sociali» ci impongono in materia di «movimenti femminili»  e poi convenire:

Mentre noi concepiamo la necessità o almeno la convenienza che il pubere si rinvigorisca sempre più, che acquisti un coraggio ed un’audacia sempre maggiori […], non potremmo comprendere una donna che facesse capriole o capitomboli, sollevasse pesi considerevoli, maneggiasse armi, lottasse e perfino nemmeno che facesse tali esercizi da derivarne lo svolazzamento delle vesti; capiamo una bambina che si arrampichi ma non una donna, perché anche se non si scopre, desta immagini erotiche nelle persone presenti.

Secondo il ginnasiarca, la donna che faceva svolazzare le proprie vesti commetteva un peccato. Non “in sé”, ovvero non perché si stava producendo in un esercizio ginnico, ma “per sé”, agli occhi, cioè, degli uomini che magari, per caso, si trovavano a guardarla ed erano invogliati a fare pensieri impuri da quelle malefiche vesti svolazzanti. Un pensiero impuro che si genera nella mente maschile, ma rimane attaccato al corpo femminile.

Questo concetto è stato espresso più di cento anni fa. Le donne non vanno più in giro con le lunghe vesti che avevano a inizi XX secolo e sono riuscite a conquistarsi una dimensione agonistica anche in discipline come il volley o la stessa ginnastica artistica, in cui schiacciano o si producono in Tsukahara con avvitamenti con in dosso maglie o body molto attillati per avere minori impedimenti al movimento. Eppure, se guardiamo a quanto purtroppo avviene nella vita “reale”, ecco che quella stessa accusa di destare immagini erotiche nei presenti è alla radice di assoluzioni in tanti processi per stupro. Processi in cui l’abito succinto di chi denuncia la violenza subita viene elevato a inconfutabile prova della sua accondiscendenza ad avere sempre e comunque rapporti sessuali.

Da Chiaroscuro n° 61, giugno 2021