Lance Armstrong è una litote, visto che ha non vinto sette Tour de France che nessun altro ha ufficialmente vinto al posto suo. I suoi successi in terra francese sono un ossimoro, perché frutto di una molto ben riuscita truffa scoperta. Lance Armstrong è, però, anche la storia di una vittoria contro il cancro che nessuna squalifica a vita per doping può cancellare, benché allo stesso texano sia poi venuto il dubbio che la troppa robaccia, presa per diventare il più forte, potesse essere all’origine della malattia.
Armstrong è anche il motivo per cui dal 1999 e per un bel po’ di tempo ho fatto tanta, tanta fatica a seguire il ciclismo. Una di quelle cose da metabolizzare con calma, molta calma, ma che alla fine vanno giù. E allora, per festeggiarne la digestione, non c’è niente di meglio di andare a vedere cosa dicevano i giornali italiani (e non solo) del Lance Armstrong ciclista e di sua madre, perché la signora Linda Armstrong Kelly, nata Gayle Mooneyham, è una presenza costante negli articoli in cui si parla del figlio. 

Oslo, 1993. «Se siete d’accordo entro con mia mamma, altrimenti ciao»
Alla prima vera stagione da professionista il giovane Lance Armstrong, classe 1971, batte tutti al Mondiale di Oslo. Pier Bergonzi1 titola «Armstrong, l’altro ciclismo», ma già il sommario fa capire che al giornalista della rosea non piacciono molto il modo scelto dal texano per essere “altro” e questo suo volersi imporre a tutti costi anche come personaggio.

Cammina a spalle aperte, si prende molto sul serio, si sente un po’ super – Ha un fisico eccezionale ma anche un caratteraccio: ieri stava mandando a monte l’appuntamento con re Harald con le foto di rito

Armstrong in meno di un anno «ha già avuto modo di “litigare” in corsa con Cipollini, Argentin e Chiappucci, tanto per rimanere in casa Italia», tecnica spesso usata dai giovani rampanti per farsi conoscere in gruppo e far vedere ai mostri sacri della propria disciplina che non si ha paura. Il problema è che si relaziona così un po’ con tutti, vedi siparietto al termine della premiazione del Mondiale. Come spiega Bergonzi, il protocollo prevede che la maglia iridata faccia delle foto di rito con il re di Norvegia. Armstrong è con Linda, sua madre, venuta apposta dal Texas, e, quando capisce che gli addetti alla sicurezza non vogliono farla passare, gira i tacchi.

«È il re che vuole vedermi, non sono io a voler vedere il re. Se siete d’accordo entro con mia mamma, altrimenti ciao»

E ovviamente il risultato finale è che «in quelle foto reali c’è pure mamma Linda».

Limoges, 1995. «Volevo vincere per Fabio»
La seconda vittoria in una tappa del Tour de France è bella, triste, commovente. Sono passati alcuni giorni dalla tragedia di Fabio Casartelli, suo compagno alla Motorola. Armstrong entra nella fuga giusta, attacca a pochi chilometri dall’arrivo e rimane solo. Sul rettilineo finale alza più volte le mani al cielo e taglia il traguardo mandando un bacio verso l’alto, «con la stessa allegra fiducia con cui di solito, i texani come [lui] mandavano i missili nello spazio», scrive Dario Ceccarelli sull’Unità2
Il perché di quel riferimento interstellare risulta chiaro proseguendo con la lettura: dopo il Mondiale di Oslo Armstrong «sembrava davvero lanciato nello spazio», poi qualcosa si è inceppato, almeno fino a questo giorno di luglio in cui voleva vincere e dedicare il successo al povero Fabio. 

Sarà perché da un anno non vinceva gare importanti, sarà per questo omaggio sincero ad un amico, fatto sta che Ceccarelli della persona Lance Armstrong ha voglia di parlarne bene:

Un bravo ragazzo questo texano dagli occhi cordiali 

Un rapido accenno al fatto che, normalmente, ama fare grandi show per festeggiare i suoi arrivi in solitaria e poi l’immancabile riferimento a mamma Linda che,

dopo avergli fatto da mamma-amica-manager, ora ha aperto in Texas una scuola per genitori con figli corridori (solo a un americano può venire in mente una cosa del genere).

Si parla, quindi, della fidanzata, «una splendida ragazza olandese che correva in nazionale» e che negli anni successivi un po’ di spazio accanto a Lance se lo prenderà, senza però oscurare Linda. 

Parigi, 2000. «Quando mi ha scelto, il cancro ha fatto un grosso errore»
La vittoria del 1999 era stata una sorpresa: la corsa a tappe più dura e importante del mondo era andata a un uomo a cui due anni prima avevano diagnosticato il cancro e a cui avevano dato il 50% di possibilità di sopravvivere. Gran parte della stampa era stata conquistata da questa storia. Le Monde era, invece, rimasto scettico -per usare un eufemismo- nei confronti del cambiamento fisico e del miglioramento prestazionale seguiti alla vittoria sulla malattia. Il quotidiano francese aveva anche avanzato l’ipotesi che l’UCI, la federazione internazionale, avesse coperto a inizio Tour una positività del futuro vincitore. 

Nel 2000 Lance Armstrong è di nuovo in maglia gialla sugli Champs Elysées e il Corriere dello Sport non sembra essersi discostato di un epsilon (come dicono i matematici) dalla narrazione che esalta incodizionatamente le sue imprese. Magnificare l’avversario serve anche ad aumentare l’hype sulla sfida con Pantani che il quotidiano sportivo ha fiducia si rinnoverà l’anno successivo. Il problema è che, così facendo, un pezzo come quello di Pietro Cabras3, più che a un articolo di giornale, somiglia a un panegirico delle virtù di Armstrong, a uno spot per l’autobiografia che il texano ha pubblicato da poco. E il racconto della sua voglia di emergere sponsorizzata da mamma Linda è uno dei passi più toccanti:

«Non pedalo per il piacere, pedalo per il dolore». La bici è sempre stata la sua vita, il modo di rifiutare l’omologazione della media borghesia texana […], lui figlio di una segretaria che faceva i salti mortali per educarlo, per educarlo. Figlio di un padre che non conosce e non vuole conoscere, tale signor Gunderson […]; figlio di un secondo padre che lo picchiava con la pagaia per ogni stupidaggine, il signor Terry Armstrong che gli ha dato il nome; figlio soprattutto di Linda che sabato Lance ha ringraziato per tutti i suoi insegnamenti. Uno in particolare: Un Armstrong non cede mai

Che in inglese dovrebbe essere “An Armstrong never gives up” e fila anche meglio, visto che il cognome acquisito dal padre… canoista vuol dire “forte braccio”4.

Parigi, 2001. «Più mi fanno la guerra, più mi viene la voglia di controbattere»
Sembra davvero passato un secolo e, invece, è passato solo un anno. Eppure la Gazzetta dello Sport5 accoglie la terza vittoria consecutiva al Tour de France con un’acrimonia che fino all’anno precedente era impensabile. Lo si definisce «spaccone di Austin diventato robot del globale», si osserva come Armstrong adesso sia «anche una macchina da soldi», si riesuma la sua antipatia («s’è visto appioppare l’etichetta di corridore più acido della carovana»), si parla dei 

preparatori chiacchierati che il Cowboy aveva fatto accomodare al suo desco già nel ’95.

Si sapeva, dunque, già tutto? E la stessa rosea non sospettava nulla nel luglio del 1999, quando attaccò l’inchiesta pubblicata da Le Monde e difese a spada tratta Armstrong il miracolato? Serviva «l’ammissione della sua collaborazione con l’inquisito dottor Ferrari»?  
Brutto dirlo, ma questa acidità sembra essere legata al fatto che gli organizzatori del Tour  2001 non hanno invitato le squadre di Pantani e Cipollini «per far posto agli amici degli amici», al fatto che l’UCI «con ostentazione di beata innocenza» dice che 

“il problema dell’Epo non influenza più il ciclismo di alto livello”

e al fatto che (aggiungo io) il Giro d’Italia tra il 1999 e il 2001 ha avuto la credibilità distrutta dalla guerra al doping, mentre il Tour, dopo il caso Festina del 1998, sta facendo finta di niente.

Fatalmente, in nessuno degli articoli che la Gazzetta dedica alla “terza stella” del Cowboy si parla di mamma Linda, c’è solo un accenno al piccolo Luke David, preso in braccio sul podio.
Anche quando quattro anni dopo Armstrong porta a casa il Tour numero sette e annuncia il ritiro, la rosea nomina solo i figli, diventati nel frattempo tre grazie all’arrivo delle gemelle Isabelle e Grace.

Austin, 2024. No Mountain High Enough
Lance si è fatto ormai grande, può camminare, pedalare e scattare in salita da solo. Linda si compiace del gran lavoro fatto con il figlio e lo racconta nella sua autobiografia dal titolo evocativo No Mountain High Enough – Raising Lance, Raising Me. Il libro esce nel 2005, quando la popolarità di Armstrong è al suo picco e questo contribuisce non poco alle vendite.
Linda Armstrong Kelly «has become an inspirational figure in her own right, sharing her experiences through public speaking engagements». Questo scrive nel settembre 2024 un sito di Austin, luogo natale di Lance, in un pezzo dal titolo Linda Armstrong Kelly The Resilient Mother Behind Lance Armstrong, uno di quei pezzi che si leggono in un amen facendo scroll sullo schermo touch dello smartphone e che hanno immagini (e forse anche altro) prodotte tramite l’Intelligenza Artificiale.
Affidabile o meno, ho deciso che questa pagina web (e non un articolo apparso su un quotidiano, cosa troppo novecentesca) sarà la mia ultima fonte. E allora mi domando: Cosa ha provato Linda Armstrong Kelly dopo che il figlio ha ammesso pubblicamente di aver vinto con l’inganno sette Tour de France sette?

Puntuale ecco la risposta:  

In interviews, Kelly expressed feeling betrayed but emphasized her continued love for Lance.

E più sotto:

She struggled to reconcile the son she raised with the athlete who had cheated.

Così, con in mente l’immagine della madre di Armstrong che prova a telefonare a Simeoni, che nel Tour del 2004 fu bullizzato e pesantemente minacciato in corsa dal figlio, faccio calare il sipario. 

Nell’immagine in evidenza: premiazione del Tour de France, Parigi, 1999: Armstrong baciato dall’allora consorte Kristin Richard e la madre Linda