Negli sport in cui la velocità è un fattore essenziale per ottenere risultati, gli incidenti sono sempre dietro l’angolo. Quando, però, hanno conseguenze drammatiche, il tentativo di darsi una spiegazione plausibile porta chi vi ha assistito a domandarsi se quanto accaduto è stato frutto di un errore umano o di una tragica fatalità. Come se ci si sentisse sollevati ad addebitare il tutto al caso, a questa causa irrazionale cui si suole attribuire ciò che avviene indipendentemente dalla nostra volontà (la definizione è della Treccani, non è mia).

Capita così di pensare che a far uscire di pista Ayrton Senna a Imola nel maggio del 1994 sia stata la rottura del piantone dello sterzo della sua Williams, ma che a ucciderlo sia stato quel pezzo di carbonio che come un proiettile impazzito ha trapassato la visiera del suo casco. Che, se solo l’angolo di incidenza fosse stato diverso, il brasiliano si sarebbe salvato… 

Capita anche di pensare – e forse con maggior cognizione di causa – che, se gli organizzatori non avessero piazzato un rilevatore di tempi intemedi in un tratto di puro scorrimento e alta velocità, Ulrike Maier avrebbe potuto un giorno raccontare in un’intervista di quando il 29 gennaio 1994 fece un errore nel corso della discesa libera di Garmisch, perse l’equilibrio e finì roteando su un cumulo di neve. Sotto la coltre si celava, invece, quel maledetto rilevatore e la sciatrice austriaca ci andò a sbattere di nuca, perse il casco e la vita. 

Caso avverso, tragica fatalità sommata a due errori umani fatti a monte, uno tecnico, da parte della sfortunata Ulrike, e uno logistico, da parte degli organizzatori. A leggere, però, l’editoriale sulla Gazzetta dello Sport del giorno dopo, era ben altro l’errore fatto dalla Maier. Quasi un peccato di hybris, quello di voler morire per una gara di sci, per lei che era una «giovane madre» e «aveva accettato il rischio come filosofia di vita». Per lei che portava spesso la famiglia con sé alle tappe del circo bianco e solo una settimana prima, dopo la vittoria nel gigante di Maribor, aveva posato per i fotografi con in braccio la piccola Melanie.

Perché “mamma Ulli”, in realtà, era una campionessa, non era una sciatrice qualunque. Aveva vinto due volte l’oro mondiale in Super-G ed era ancora in gara per la conquista della Coppa del Mondo generale, cosa che l’aveva spinta a cimentarsi in discesa a Garmisch. Ma tutto questo non era evidentemente bastato a far sì che il più importante giornale sportivo italiano la ricordasse in primis per i suoi successi da atleta e poi, se mai, come donna e madre.

E se non cogliete la differenza provate a immaginare un editoriale dedicato all’incidente di Senna che inizia così:

La morte in diretta di Ayrton Senna, giovane padre che si è spezzato l’osso del collo…

E ciò che non suona bene non è il fatto che Ayrton non abbia avuto figli.

Da Chiaroscuro n° 60, marzo 2021