«Troviamo estremamente deplorevole che le minacce di violenza vengano a perturbare il nostro sport.» Nel comunicare il proprio ritiro dal Giro dell’Emilia, in programma il 4 ottobre 2025 a Bologna e dintorni, la Israel Premier-Tech suggerisce l’idea quasi atarattica di un mondo del ciclismo, che non deve essere scosso e smosso da questioni politiche, e attribuisce la violenza solo agli altri, ovvero a coloro che ormai da mesi (ma sarebbe giusto dire anni) protestano a bordo e per strada, perché in gruppo pedala la squadra World Tour di proprietà di Sylvain Adams, «uomo d’affari israelo-canadese dal patrimonio immenso, filantropo, appassionatissimo di ciclismo (anche praticato) e politicamente vicino al premier Netanyahu» (così lo descrive Corriere.it). Quindi, politicamente vicino al leader di un governo che, in questo momento, quanto a violenza esercitata, ha ben pochi rivali, perché responsabile del genocidio della popolazione palestinese in atto a Gaza.1
In realtà, indirettamente, è proprio la violenza, i crimini di cui si sta macchiando Israele, la ragione per cui, nei giorni precedenti il Giro dell’Emilia, anche l’assessora allo sport del comune di Bologna, Li Calzi, ha dichiarato la sua contrarietà alla presenza della Israel in gruppo, di fatto rispondendo a un appello lanciato dai collettivi pronti a manifestare e a bloccare tutto stile Vuelta 2025. Ed è stata sicuramente anche la presa di posizione istituzionale a convincere GS Italia, organizzatrice della gara, a revocare l’invito alla squadra di Adams.2      

Ho detto e scritto più volte che il mantra “lo sport deve restare separato dalla politica” è, in realtà, funzionale a quei governi, quegli Stati che utilizzano gli eventi sportivi per promuovere una diversa, migliore e più moderna immagine di sé. È vero anche in questo caso: Adams, che, indirettamente, lamenta l’esclusione della sua squadra da una competizione per questioni che “nulla hanno a che fare con lo sport”, è colui che, insieme con il Ministero del Turismo di Tel Aviv, ha portato il Giro d’Italia in Israele nel 2018. Affinché, attraverso le immagini che la corsa rosa diffondeva, il mondo potesse accorgersi delle bellezze dello Stato ebraico, che nelle cronache finiva sempre e solo per i bombardamenti di Gaza, per gli attentati subiti da Hamas o per gli insediamenti abusivi e le violenze dei coloni in Cisgiordania. All’epoca qualche bandiera palestinese già si vedeva tra il pubblico del Giro, c’era qualche protesta contro la campagna di sportwashing messa in atto da Israele attraverso l’amico canadese. Niente di più, perché l’opinione pubblica era assuefatta alle notizie di ordinaria violenza che arrivavano da Gaza, Tel Aviv, Gerusalemme; il massacro del 7 ottobre 2023 non c’era ancor stato e nessuna “spropositata reazione militare” (come l’ha definita la presidente Meloni) era in corso.    

Quindi, riepilogando, il filantropo Adams e la Israel fanno il loro interesse a derubricare a questione di ordine pubblico, a minacce fatte da violenti, tutto quello che hanno dovuto sopportare (e a cui hanno sottoposto anche le altre squadre) sulle strade d’Europa negli ultimi mesi.
Guarda caso, il richiamo ai problemi dati alla Polizia è uno dei leit motiv dell’intervento fatto dal leader dell’opposizione spagnola Alberto Núñez Feijóo il giorno in cui, causa manifestazione di protesta Pro Palestina, la Vuelta 2025 è finita senza la sua attesa conclusione con volata e premiazione in centro a Madrid. Mentre, di contro, il premier socialista Sánchez ha fatto un discorso in cui lo sport stesso viene riconosciuto come teatro di azioni politiche, dichiarandosi ammirato per i ciclisti e per il popolo spagnolo, che ha deciso di mobilitarsi per una causa giusta, e comunicando che il suo governo chiederà ufficialmente che Israele e i suoi rappresentanti vengano esclusi dalle manifestazioni sportive, perché il Paese mediorientale «can’t use any international platform to whitewash its presence» (così scrive il Guardian).

Partendo da un invito ritirato al Giro dell’Emilia, si è passati per la mai risolta questione palestinese e si è finiti nel pieno della politica spagnola. È sotto gli occhi di tutti quante ramificazioni e con quale livello di complessità possa avere una notizia sportiva, considerata tra le meno importanti, tanto che nessun telegiornale ne ha parlato.
Il problema è che, invece, a leggere articoli come quello del Corriere citato in precedenza (il cui titolo sbrigativo è «Vuelta in mano ai ProPal: proteste di massa, tappe modificate e incidenti sfiorati»), o a sentire le telecronache della corsa a tappe in terra iberica offerte da Discovery+, sembra sempre che ci sia un limite, una sorta di soglia oltre la quale un giornalista sportivo non può spingersi perché, in fondo, si sta parlando di biciclette e non di politica.
Ora, se si pensa, anche a ragione, che chi si occupa delle cronache delle corse non debba addentrarsi dentro questioni geopolitiche legate allo sport, perché non rivolgersi a gente esperta del settore quando si vogliono scrivere articoli su Vuelta e ProPal? o quando si deve commentare in diretta un evento con grandi implicazioni sociali, culturali, politiche?   

Credo, infatti, che alla quinta, decima, ventesima comparsa a bordo strada di manifestanti o di fronte alla notizia che l’Israel non correrà né il Giro dell’Emilia, né altre classiche autunnali italiane3, sia un diritto di chi segue il ciclismo essere informato a 360° (e un suo dovere informarsi) su: 
cosa ne pensano i corridori della causa palestinese e della presenza della Israel in gruppo;
come si sta muovendo chi organizza le corse e cosa sta pensando di fare l’UCI;
chi è dietro le proteste, ovvero piccoli gruppi spontanei, collettivi locali o un’organizzazione capillare che, come nel caso della Vuelta, ha lanciato una vera e propria campagna di boicottaggio;
quali posizioni abbiano espresso in merito le istituzioni locali e nazionali (che magari si scopre che anche a loro in questo momento non piace veder passare gente in bici con il simbolo di Israele);
in quali altri sport si stanno verificando proteste contro la presenza israeliana…
E via dicendo.

Chiudo con un ricordo e una domanda. Sorteggiati nello stesso gruppo eliminatorio del Mondiale di calcio, Stati Uniti e Iran si ritrovarono di fronte a Lione una sera di giugno del 1998. La partita fu trasmessa in diretta dalla Rai in prima serata. Accanto a Bruno Pizzul fu chiamato a commentare il giornalista non sportivo Paolo Frajese, che, in quel momento, era il corrispondente per la tv pubblica dalla Francia, ma che per anni lo era stato dagli USA. Fu chiamato perché le due Nazionali che si affrontavano sul terreno verde rappresentavano, infatti, nazioni tra loro nemiche.
Io avevo poco più di venti anni e la cosa mi sorprese, perché da sempre sentivo dire in tv che sport e politica erano due mondi paralleli. Un ventenne di adesso sarebbe altrettanto sorpreso?