Paola Pezzo entra nelle case degli italiani all’ora di cena un martedì di fine luglio del 1996. Ad Atlanta è in corso l’Olimpiade, in programma c’è la gara femminile di mountain bike e c’è un’italiana al comando. Da sola e con tanto margine, nonostante una caduta nelle fasi iniziali e la conseguente necessità di rimontare. Non è, però, la snervante attesa che la gara si concluda con l’agognato oro olimpico a tenere desta l’attenzione della “platea televisiva”, che -trattandosi di sport- è identificata con il pubblico maschile (e poi comunque è ora di cena e la mogli stanno a cucinare): l’evento… sportivo da non perdere è che nel torrido pomeriggio georgiano la ciclista azzurra ha abbassato la zip della sua divisa perché aveva caldo.
Maliziosamente sosterranno ex post in molti (giornalisti, uomini), perché così «le sue collinose beltà»1 sono a portata di telecamera. Del resto, l’autoassoluzione, veicolata da discorsi che sembrano logici solo perché seguono la logica imperante, è uno degli strumenti preferiti che il potere maschile usa per prodursi e ri-prodursi. E il pezzo “Giù lo zip del body” di Edmondo Borselli, apparso su La Stampa il 1° agosto 19962, rappresenta un manifesto di questo modo di agire, un vero compendio dell’abile tecnica del non mettersi mai in discussione.

Uno dei presupposti fondanti l’ho già ricordato: il pubblico interessato, la platea televisiva cui ci si riferisce, coloro che stanno riprendendo con le telecamere, etc. sono tutti concetti da considerare sinonimi di “universo maschile”. Di fronte a tali occhi una gara femminile non è degna di troppa attenzione perché «anche le [atlete] più belle […] hanno sempre un che di distante, qualcosa di scultoreo, perfetto ma irragiungibile, e quindi neanche desiderabile». Figuriamoci le meno belle…
«Eppure quell’inopinato décolleté», ostentato in mondovisione da Pezzo, ha acceso la fantasia (sessuale) di giornalisti e pubblico, rendendo la gara di mountain bike femminile uno di quei «piaceri eccezionali, rari, inattesi, sorprendenti e che quindi giustificano […] l’improvvisa inclinazione al voyeurismo». L’autore dell’articolo si ferma qui e, forse, è solo per improvviso pudore che manca un poetico accenno a quello stato di grazia interiore che, per dirla con Lucio Dalla, invita a stendersi sul divano e con dolcezza far partire la propria mano. O, forse, perché «altrimenti si infrangono i comandamenti del politically correct», che vincolano, ad esempio, quei poveri giornalisti eccitati di cui sopra a non poter far titoli con giochi di parole su «quel gran Pezzo della Paola». Ed è sconvolgente scoprire come qualcuno, nel lontano agosto del 1996, usi già quella odiosa espressione ormai entrata nel linguaggio comune (politically correct) per rivendicare la naturalità del suo essere socially uncorrect, ovvero il suo diritto a perpetrare un modello di società che tratta le donne come oggetti finalizzati al piacere maschile.

La ciliegina sulla torta in un discorso, che ha di fatto tacciato lo sport femminile di essere uno spettacolo poco interessante in assenza di gente come Paola Pezzo, è, infatti, la moraleggiante conclusione, l’asprezza con cui viene predetto alla vincitrice dell’oro olimpico un «luminoso destino come indossatrice» e come testimonial di super-reggiseni. Come se guadagnare soldi in un mondo maschile, agendo sui desideri maschili, fosse una provocazione degna di una donna poco di buono e non di quella ragazza tutta sport e sudore che gli italiani hanno ammirato in TV una sera di agosto all’ora di cena. Ammirato e desiderato, come lo si fa con «una casalinga a cui cade la spallina della sottoveste mentre è indaffarata con il bucato». Cioè, con una donna sottomessa su cui si può esercitare potere.