Un po’ per i risultati raggiunti dalla Nazionale, un po’ per lo sbarco in Serie A di alcuni grandi club della massima serie maschile, il calcio italiano al femminile ha fatto parlare di sé negli ultimi mesi. Anche se non con l’eco e il rispetto che meriterebbe, specie sulla stampa sportiva. Del resto, come scrive Marco Giani, ricercatore e membro della Società Italiana di Storia dello Sport: «In un paese sessista come l’Italia […] il football rimane una questione di genere». Rimane perché in effetti lo è stato sin da principio, come questa storia accaduta a Milano negli anni Trenta del secolo scorso dimostra. Una storia che lo stesso Giani racconterà a mo’ di intervista, in due puntate.

Chi sono le protagoniste della storia che ci stai per raccontare?

Marco: Una trentina di ragazze, quasi tutte tra i 15 e i 20 anni (la più giovane, Elena Cappella, ne aveva addirittura 14), anche se nel gruppo ci doveva essere qualcuna più anziana, come la portavoce Losanna Strigaro, o come coloro che formavano il Direttorio, organo di autogoverno del gruppo.
Siamo nel 1933 e, quindi, la maggior parte delle ragazze non aveva mai visto con i propri occhi l’Italia pre-fascista ed era stata educata dalla scuola e dalle organizzazioni di regime, ideologia sportiva annessa. L’età è importante anche per un altro motivo: essendo all’epoca 21 anni l’età legale, per molte delle ragazze serviva il permesso dalle famiglie per compiere un atto pubblico quale giocare a calcio nei campi della città.
Si trattava di ragazze milanesi, e anche questo è un dato da sottolineare: Milano, sin dalla fine dell’Ottocento, era diventata una delle capitali sportive del Paese e, in particolar modo per lo sport femminile, era stata una città di riferimento già nel periodo dell’anteguerra.
Un terzo aspetto -che sto attualmente approfondendo ma che mi pare estremamente interessante- è quello sociale. Si trattava di studentesse della scuola superiore1, ma soprattutto di dattilografe, modiste, sarte: un ceto impiegatizio da città industriale, intraprendente per sua stessa natura e gettato nella modernità, che effettivamente poche città italiane allora potevano vantare. Non erano insomma figlie dell’aristocrazia o dell’alta borghesia che già dall’inizio del Novecento si erano date a sport ben più “alti” come, ad esempio, l’equitazione.

C’era un divieto esplicito a praticare il calcio femminile? E, in genere, come reagirono le autorità e la stampa alla notizia della formazione di una squadra femminile? 

M.: Prima che il Gruppo Femminile Calcistico iniziasse le sue attività, no. Del resto, perché il regime o, ancor prima, le istituzioni sportive dell’Italia liberale avrebbero dovuto preventivamente vietare qualcosa che nel nostro paese pareva del tutto inconcepibile e veniva spesso indicato come qualcosa di assurdo? Tanto che sui giornali italiani si potevano leggere cose tipo «di questo passo, un giorno vedremo delle donne giocare a calcio»…
Le ragazze furono molto sagge, annunciando ai giornali la nascita del gruppo e chiedendo al contempo l’approvazione alle autorità fasciste cui erano demandate tali richieste, ovvero le autorità provinciali. L’ufficio di pertinenza, non sapendo probabilmente che pesci pigliare, tramise la richiesta a Roma. L’esito pareva abbastanza scontato, eppure, quando la richiesta arrivò sulla sua scrivania, il gerarca bolognese Leandro Arpinati, da anni ras dello sport italiano, capo sia del CONI che della FIGC, inaspettatamente concesse l’autorizzazione, a patto però che le ragazze -visto il carattere sperimentale della cosa- giocassero a porte chiuse. Arpinati, tifoso del Bologna e appassionatissimo della pratica sportiva in generale, aveva già sostenuto la diffusione del nuoto femminile, quindi probabilmente vedeva di buon occhio questo tentativo venuto dal basso, nell’ottica di quel generale clima di sperimentazione che in quegli anni il regime -spesso anche contraddittoriamente- stava intraprendendo nell’ambito dello sport femminile2.

Per quanto riguarda la stampa, tenendo in considerazione quanto apparve non solo sui quotidiani sportivi, ma anche su quelli generalisti, nonché sulle riviste per signore e su quelle cattoliche, tradizionalmente avverse allo sport femminile, possiamo rintracciare tre diversi atteggiamenti: alcuni giornali si rifiutarono proprio di parlarne, dichiarandolo anche ai propri lettori, in quanto ritenevano il calcio femminile un fenomeno da baraccone; molti ne parlarono per dileggiare le ragazze, con articoli ma anche con vignette, spesso di dubbio gusto, in cui le si dipingeva alternativamente o come dei maschiacci o come delle avventuriere in cerca di marito (ne trovate alcune in fondo all’articolo); qualcuno decise invece di sostenerle.
Nell’ultima categoria, nessuno si spese come Il Calcio Illustrato. Il settimanale sportivo milanese, fondato alla fine del 1931 da Leone Boccali, riuscì a tenere una propria linea editoriale almeno fino a metà 1933, risultando per molti aspetti una testata veramente all’avanguardia. Poi il regime lo avrebbe fatto rientrare nei ranghi.

Da Il Calcio Illustrato, 29/03/1933

Ovviamente, quando il 1° aprile 1933 La Gazzetta dello Sport, che fino a quel momento aveva taciuto, pubblicò il comunicato stampa che annunciava il permesso di Arpinati, i nemici del G.F.C. abbassarono i toni o smisero del tutto di parlarne, capendo che le ragazze avevano un protettore a Roma. Quando, al contrario, il vento iniziò a soffiare contro le calciatrici, fu Il Calcio Illustrato a smettere di punto in bianco la narrazione delle gesta delle calciatrici. Ma, a quanto pare, -e questa è una delle scoperte più interessanti fatte in questi mesi- il regime tenne sotto controllo i giornali sportivi, disinteressandosi di quello che scrivevano ad esempio i giornali per signore: Amica, addirittura, riuscì a intervistare le ragazze alla fine dell’anno (dopo quindi il divieto esplicito), facendo per altro trapelare la loro delusione…

Qual era la situazione dello sport femminile all’epoca? E le ragazze quali sport di squadra potevano praticare senza restrizioni?

M.: Purtroppo non è stata ancora fatta una storia dello sport femminile italiano sotto il fascismo che, partendo dai temi generali (maternità, pericolo della mascolinizzazione, rapporto con la pratica femminile pre-fascista, rapporto con quanto avveniva all’estero, etc.), scenda poi nel particolare di ciascuna disciplina. Sarebbe poi necessario provare ad avanzare delle periodizzazioni: dire 1928 non è dire 1930 o 1933, ma neppure 1934… Vivendo in una situazione di regime, certe decisioni prese dall’alto, ma anche certi silenzi, all’interno dei quali ognuno poteva provare a ritagliarsi un proprio spazio, erano in grado di impattare in poco tempo sul clima sportivo di tutto il paese. Ad esempio, far sparare le ragazze, cosa che Turati (all’epoca Segretario del PNF) fece fare al primo concorso ginnico nazionale femminile nel 1928, sarebbe risultato inconcepibile nel 1933.
In generale, possiamo affermare che nel 1933 l’idea che le ragazze italiane facessero sport era accettata, di buon cuore o a malincuore, vista anche la proposta fatta a scuola dalle Piccole Italiane e dalle Giovani Italiane, le organizzazioni femminili di regime. Oltretutto già nel 1928 era arrivata la prima medaglia olimpica al femminile, un argento nella ginnastica a squadre ai Giochi estivi di Amsterdam.
I cattolici più intransigenti chiedevano di vietare manifestazioni, come le gare pubbliche di atletica e di nuoto, ritenute immorali a causa dell’abbigliamento (pantaloncini e costume). Proprio per evitare attacchi di questo genere, le calciatrici milanesi furono molto sagge nel presentarsi da subito in gonna e non in pantaloncini, come invece facevano le loro colleghe europee coeve3.
Tuttavia, per un discorso di politica internazionale, il regime stava cercando di diffondere a tappe forzate proprio atletica e nuoto femminili in vista delle “Olimpiadi di Hitler”, quelle di Berlino 1936: il secondo posto conquistato alle Olimpiadi di Los Angeles del 1932 con una squadra solo maschile andava difeso anche puntando sul sempre maggior spazio dato alle gare femminili in seno ai Giochi. E difatti il 1933 è l’anno in cui l’astro di Ondina Valla -poi oro negli 80 ostacoli nel 1936- inizia a “vedersi”, mediaticamente parlando.
Facendo una considerazione di carattere più generale, era il tennis lo sport femminile più diffuso, tra le cui praticanti non solo ragazze, anche signore, e poi resistevano i vecchi sport femminili, come equitazione ed escursionismo, naturalmente non accessibili a tutte.

Ma il limite evidente di tutti questi sport era la loro natura individuale: mancava, in poche parole, un corrispettivo del calcio, nonostante la retorica di regime ci tenesse molto a che anche le italiane imparassero attraverso lo sport ad uscire dal proprio guscio e a “fare squadra”. Per questo motivo, proprio in quegli anni, il fascismo diede grande impulso alla pallacanestro femminile, fino a quel momento praticamente inesistente nonostante la sua pratica fosse nata decenni prima in seno alla ginnastica. Anche uno studio più approfondito sul canottaggio femminile -su cui sto terminando una piccola ricerca- potrebbe portare interessanti risultati a riguardo.
Il problema per il regime fu che le calciatrici, capendo che aria tirava, si presentarono come delle “brave ragazze” che non solo praticavano sport, ma che avevano scelto uno sport di squadra, così da poter descrivere con somma gioia ai giornalisti quanto si sentivano bene a sacrificarsi per le compagne, a rinunciare ai propri egoismi per un risultato comune… Si capisce in che senso anni fa Sergio Giuntini ha definito la vicenda sportiva del G.F.C. come la nemesi dello sport femminile fascista.

Ma cosa ha di davvero particolare la storia del G.F.C.?

M.: Prima di tutto, a differenza di altre esperienze sportive che interessarono le donne italiane nel Ventennio, fu qualcosa che partì dal basso, e non dall’alto. C’erano di certo degli uomini che sin dall’inizio incoraggiarono e sostennero il progetto e che magari diedero l’idea iniziale (aspetto ancora da chiarire), ma poi il grosso della responsabilità ricadde sulle spalle di queste ragazze.
Seconda cosa, per poter difendere il loro diritto a correre dietro una palla le ragazze del G.F.C. capirono sin da subito che l’unica possibilità di sopravvivere era giocare una partita retorica, ideologica. Non potendo, per ovvi motivi, praticare la loro attività in clandestinità (come fecero, ad esempio con lo scoutismo i loro concittadini cattolici delle Aquile Randagie4) e trovandosi a vivere in un’Italia fascista che aveva fatto delle aperture sul tema dello sport femminile, sfruttarono ogni appiglio per presentarsi come “fascistissime”, brave ragazze che non facevano altro che portare alle estreme conseguenze le direttive del regime che avevano imparato così bene.

Questo aspetto molto interessante è stato da me approfondito in un articolo apparso per la rivista La Camera blu: oltre la mera pratica sportiva, o meglio, per difendere la loro possibilità di praticare sport, le ragazze imbastirono una battaglia retorica tramite le lettere che scrivevano ai giornali, i comunicati stampa che diffondevano, le interviste che rilasciavano, battaglia dalla quale si deduce che potevano essere tutto fuorché ingenue. Certo, un aspetto da chiarire è se lo facessero per resistere al regime o meno. Da quanto emerso finora dalle fonti a mia disposizione, non si può ancora dare una risposta univoca. Ragionevole che il “doppio gioco” lo facessero le sorelle Boccalini (le calciatrici Rosetta e Luisa, l’aiuto allenatrice Giovanna), provenienti da una famiglia socialista e poi partigiane comuniste durante la Resistenza.
Probabilmente, però, quello che davvero rendeva coese questa trentina di ragazze era, molto più prosaicamente, il desiderio di poter continuare a giocare a quel calcio che a loro piaceva così tanto.

Desiderio che, come vedremo meglio nella seconda parte, subì ben presto un brusco stop.
Intanto vi lasciamo con una raccolta, a cura dello stesso Giani, di vignette di dubbio gusto con cui a inizio 1933 la stampa ironizzava sulla nascita delle prime squadre di calcio femminile

[continua]